Pollo alle prugne: Magia franco-iraniana
Malinconicamente magico. È forse questa l’espressione che meglio rappresenta Pollo alle prugne, di Marjane Satrapi e Vincent Paronnaud. Dimenticatevi Persepolis, opera prima del duo registico. Dimenticate la proattività della protagonista (la stessa Satrapi) e l’abilità di sapere raccontare da un punto di vista inconsueto (quello di una ragazzina iraniana brillante e anticonformista) la storia recente di una nazione come l’Iran, minata da deprecabili guerre intestine e scontri ideologici letali. Nel nuovo lavoro, presentato in concorso alla 68a Mostra del cinema di Venezia, Satrapi prende ancora a prestito una vicenda di famiglia (dapprima elaborata in forma di graphic novel) ma con tutt’altro stile, sia sul piano della forma, sia sul piano dei contenuti. Il film, stratificato su diversi livelli narrativi ed espressivi, emana un fascino magico che agisce da volano a letture molteplici. Non da ultima, quella che vede in Irâne, la bella e inarrivabile Giulietta del protagonista, il correlativo oggettivo di una nazione: il miraggio di una serenità inaccessibile, perché deliberatamente negata da arbitrarie leggi patriarcali. La magia racchiusa nella vicenda narrata, interpretata da un cast di grande qualità e versatilità, è inequivocabile: è una magia che passa attraverso una musica che detta i tempi del montaggio, specialmente nelle ondate di flash back finali riepilogativi. È una magia che permette persino di accostare con poeticità il tema dell’amore a quello della morte. È un incantesimo che nasce dalla sintesi dei più svariati generi di recitazione e di animazione, secondo la logica di un iperbolismo fiabesco a volte melodrammatico, a volte grottesco e burlesque, altre ancora romantico.
Il film è narrato dalla voce fuori campo dell’angelo della morte Azaél, secondo lo schema di un viaggio a ritroso nel tempo, inframezzato da flashforward che vedono protagonisti i figli di Nasser Ali da adulti. La scansione del racconto negli otto giorni che Nasser Alì si dà per morire indica insieme la cartella clinica delle fasi della malattia che il novello Ivan Ilič si è autoinflitto, e, nel contempo, il termometro di un’epifania che svela allo spettatore, pezzo per pezzo e mano a mano che ci si avvicina all’ottavo giorno, il motivo che ha condotto il protagonista a cedere a quella finora incomprensibile apatia assassina. L’ironia e l’umorismo sono le cifre espressive che rendono fluido e accessibile un film articolato e semioticamente denso, mentre l’alone mistico e quasi folkloristico che permea tutta la vicenda, ci consegna atmosfere che evocano le Veglie alla fattoria presso Dikan’ka di Nikolaj Gogol’. Non mancano riferimenti a icone cinematografiche quali Sofia Loren e citazioni autoreferenziali (la sala in cui viene proiettato il film della Loren si chiama Persepolis).
Pollo alle prugne esala i profumi di un paese perduto. È un mare magnum in cui la storia con la “s” maiuscola (quella dell’Iran) viene traslata, al tocco di una bacchetta magica, in una serie di mondi paralleli, distinti tra loro sia iconograficamente sia sul versante spazio-temporale, ma tutti miscelati in uno sciabordio di onde sintomatiche di condizioni esistenziali precarie. Onde che confluiscono in una visione d’insieme allegorica, profondamente poetica, in cui pare che nessuno dei personaggi (come dire “nessun iraniano”) possa essere/avere ciò che più desidera e risolva, perciò, questo male di vivere con una cura drastica, sia essa la morte (come per Nasser Alì) o l’ingabbiamento in una vita stereotipata che assicuri, almeno in superficie, un degno riconoscimento sociale (la moglie di Nasser, il figlio e la stessa Irane). La conclusione, forse un po’ affrettata, non toglie spessore a un lungometraggio che, nel suo scorrere, è proprio il caso di dirlo, fa scaturire nel pubblico immagini allusive e riflessioni pregnanti su di una realtà tanto concreta, quanto effimera, che è la vita, privata di uno scopo e di un senso di appartenenza.
Curiosità: La pellicola, che trae ispirazione dalla vita del prozio musicista della regista, rievoca, per immaginario e commistione di generi, Il fantastico mondo di Ameliè (Le fabuleux destin d’Amélie Poulain, 2001) di Jean-Pierre Jeunet.
A cura di Valentina Vantellini
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