50 e 50: agrodolce con ironia
Abbandonato lo sperimentalismo di Fa’ la cosa sbagliata, il regista Jonathan Levine ritorna con una storia singolare raccontata in stile “team Apatow”. Soggetto: il cancro all’età di 27 anni. Argomento delicato, arduo e ambizioso, specialmente se associato alle potenzialità, ma anche ai rischi, insiti al genere commedia. Un’operazione azzardata se si ragiona nell’ottica del ritorno economico, data l’abitudine dello spettatore medio (quello che, in sostanza, fa cassa al botteghino) a ricercare nel cinema una distrazione dalle preoccupazioni quotidiane.
La notizia buona è che il film è dinamico e ricco di dialoghi serrati: nessuna caduta di tono, nessuno spazio per le banalità, nessuna degenerazione malinconica o semi-drammatica. Levine dimostra abilità nel restituire un’immagine “contemporanea” e schietta, sdrammatizzata, della malattia, bypassando facili sentimentalismi e cadute di stile. Il merito è in gran parte da attribuire al contributo dello sceneggiatore Will Reiser, che racconta una storia non solo autentica, ma anche vissuta in prima persona, sulla sua pelle. Ne esce il ritratto di un ragazzo come tanti che, nella frenetica società odierna, deve fare i conti con un nemico impossibile da sconfiggere con i mezzi tradizionali. Il film, però, è anche e soprattutto un’analisi, seppur lieve, di come si evolvono i rapporti umani tra un malato terminale e i suoi amici, i suoi familiari, la sua ragazza. Levine registra con sensibilità le reazioni di chi circonda il protagonista Adam alla notizia devastante del tumore maligno da cui risulta essere affetto. E lo fa in modo garbato e profondamente umano, evitando distinzioni manichee tra buoni e cattivi per rispettare in un certo qual modo la realtà dei fatti. In sostanza, ci fa capire che non esistono “metodi collaudati” e sicuri per affrontare il cancro: sono l’amicizia e l’amore, da parte di madri, mogli e amici ciò di cui un malato ha davvero bisogno. Perché nessuno dei personaggi ha in realtà la forza o la grazia per sostenere con maturità o compostezza Adam. Men che meno i medici, che sono letteralmente scaraventati in cima alla hit-list dei personaggi più disumani: descritti come freddi e insensibili, sono incapaci di rapportarsi col paziente perché accecati dall’approccio meramente scientifico alla malattia. Se da un lato le vie di fuga percorse da chi circonda il malato sono identificabili nel trattamento asettico del male e nella riduzione del malato a cavia da laboratorio, dall’altro si tramutano nell’allontanamento fisico. Nel migliore dei casi, invece, la soluzione che permette di chiudere un occhio sulla realtà è l’ironia e lo spirito di gruppo. Ma in tutti i casi l’ammalato resta vittima sacrificale, destinata a un isolamento e a un alienamento emotivo e affettivo ritratti, però, con delicatezza e senza pedanteria.
Dal punto di vista formale il film soffre di alcuni difetti di edizione, ma in compenso riesce a trasmettere in modo eccellente, proprio per la sua semplicità, il disorientamento e lo stordimento di Adam alla notizia della sua “condanna”: mentre il dottore gli illustra con paroloni impronunciabili in cosa consiste il Neurofibrosarcoma Schwannoma, un fischio in sottofondo aumenta gradualmente di volume fino a offuscare la vista del dottore e a sovrapporsi alla sua voce, che ripete come un’eco frasi prive di senso e di interesse. Imperniato sulla struttura narrativa dei 3 atti, con climax e turning points ben posizionati e una forma circolare che apre e chiude sulla stessa canzone, il film ha un theme orecchiabile e facilmente assimilabile e una colonna sonora su cui spicca High and Dry dei Radiohead di una volta. Il pilastro portante della storia è costituito dal rapporto quasi simbiotico tra due amici, come accade in un tradizionale bromance e non mancano scene in cui la telecamera si stringe sui volti dei personaggi ricordando le atmosfere sgranate e ostentatamente “naturalistiche” di certi film di Apatow e Phillips. “Sono così stanco di essere morto”, dice Adam alla sua terapeuta dopo l’unico sfogo del film, in auto: riflettiamoci su. In fondo 50 e 50, che sta ad indicare la percentuale di guarigione dal cancro spinale, riesce a toccare più tasti di quanti si direbbe.
Curiosità
Il film ha ricevuto il premio del pubblico al 29mo Torino Film Festival. Il personaggio di Adam trae ispirazione dallo scrittore e sceneggiatore Will Reiser, guarito da un cancro diagnosticatogli quando aveva poco più di vent’anni. Fu proprio Seth Rogen, suo amico fin dai tempi della malattia, che lo spinse a mettere nero su bianco la sua drammatica esperienza.
A cura di Valentina Vantellini
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