Knockout – Resa dei conti: andare in tilt
Analizzare il cinema di Steven Soderbergh è sempre stato arduo a causa di un continuo cambiamento di umori e stili, temi e versanti. Più che un autore sembra uno sperimentatore: nella sua carriera ha esplorato di tutto, dalla commedia al dramma, dal biopic impegnato al mero esercizio di stile, dal blockbuster hollywoodiano al cinema indipendente più estremo. Capace di una messa in scena rigorosa fino all’autolesionismo – Intrigo a Berlino (The Good German, 2006) o all’uso di un digitale apparentemente sciatto – Full Frontal (2002) -, il suo cinema è apparentemente schizofrenico, (in)capace di decidere da che parte stare e in quale direzione guardare. I detrattori parlano di un personalismo senza contenuti, i sostenitori di una contemporaneità al di fuori degli schemi.
Sicuramente gli strumenti analitici del cinema classico difficilmente possono essere utili nel decifrare il suo linguaggio. Prendiamo Knockout – Resa dei conti. Se dovessimo raccontarlo oggettivamente, parleremmo di un action di serie b dove, alla stregua di un film con Jean Claude Van Damme o Chuck Norris, la pretestuosa trama serve solo a farci ammirare il corpo e la maestria nel combattimento di un grande atleta, anche se in questo caso si tratta di una donna (e diciamolo, sebbene sorprendente, non è la prima volta che avviene). Inoltre potremmo dire che il montaggio mostra colpevolmente la sua nota velocità di lavoro (Banderas ha dichiarato di essersi sorpreso di quanto riesca a girare in fretta) tanto da usare scavalcamenti di campo o inquadrature apparentemente prese a casaccio, come se mancasse del girato. Potremmo anche dire che erigere a eroe una marine super addestrata e mercenaria non è certo etico ed edificante (per non parlare delle paternalistiche morali reazionarie di Contagion). Potremmo, perché tutto vero e comprovato, però sarebbe riduttivo e anacronistico.
Knockout – Resa dei conti, infatti, pur essendo un film di serie b reazionario e mal montato, funziona. E non si tratta solo delle numerose location o del variegato e imponente cast (ormai segno distintivo del nostro), ma più che altro di una rara e innata capacità di ritmo che va oltre la tematica e lo stile. Non possiamo che stare dalla parte della vittima (e il fatto che sia una donna più forte degli uomini non è affatto da sottovalutare) e soffriamo con lei. Non possiamo non ammirare la sua audacia, la sua forza, la sua determinazione. Non possiamo che non volere sapere chi è il traditore e se pagherà. Con il suo cinema non ci si annoia mai, ci si fanno domande e spesso, almeno per chi scrive, ci si arrabbia. Tutto merito dell’imperfezione e del manierismo con il quale Soderbergh usa il cast, le location e il suo apparentemente schizofrenico, ma efficace, sguardo sul mondo: un personale parco divertimenti da cui attingere umori, colori e odori. Arduo dunque analizzare, meglio farsi governare dalle emozioni: in fondo haywire, il titolo originale, significa andare in tilt. Una caratteristica da non sottovalutare negli apatici e patinati tempi moderni.
Curiosità
Leggenda narra che Soderbergh abbia visto Gino Carano in tv quando perse l’incontro per il titolo mondiale femminile di Muay Thai e decise di creare un film per lei.
A cura di Sara Sagrati
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