Le ferite del potere
Paranoia e potere di Marco Valsecchi ********
L’impressione è che le aspettative di qualcuno andranno largamente deluse dalla visione di questo film. Di certo non quelle degli estimatori di Meryl Streep, la cui interpretazione maiuscola val bene l’Oscar che critici e giornalisti paiono averle già assegnato in pectore. A tal proposito, c’è solo da sperare che la pellicola venga proiettata nelle sale anche in lingua originale, per rendere giustizia all’incredibile lavoro compiuto dall’attrice americana sulla propria voce e sul proprio accento. Chi con tutta probabilità è destinato a storcere il naso sono invece coloro che da questo biopic si aspettano un’analisi politica tout court che prenda le mosse da una minuziosa disamina dei fatti e che porti a una lettura storica degli eventi. L’obiettivo di The Iron Lady non è evidentemente questo. Qui non si ragiona da politologi puri, né tanto meno da storici. Volendo trovare una definizione con cui incasellare la poetica adottata dalla regista Phyllida Lloyd, potremmo forse parlare di “approccio psico-politico”.
Gli anni della seconda guerra mondiale, le prime campagne elettorali, l’ascesa al potere culminata nell’elezione a primo ministro, le stagioni a Downing Street, i successi economici e le immani proteste sociali causate dal Thatcherismo, le rivolte nordirlandesi, il conflitto delle Falkland e la lotta in seno al partito conservatore: in The Iron Lady nessuno di questi passaggi più o meno epocali viene esaminato in quanto tale. Non che vengano trascurati, anzi. Semplicemente non ci appaiono come capitoli di un libro di storia, bensì come immagini convulse filtrate dalla memoria di una anziana signora perseguitata dai propri fantasmi e ormai completamente in balia delle proprie costruzioni mentali. Una povera vecchina in stato allucinatorio, costretta a combattere contro le proiezioni della propria mente che continuano ad assediarla anche quando non vorrebbe fare altro se non immergersi placidamente nella realtà. Una prospettiva spiazzante e discutibile, certo. Ma portata avanti con coerenza all’interno di una struttura coraggiosa che nel corso della narrazione costruisce con spietata metodicità una teoria quantomeno interessante, secondo la quale il disordine mentale dell’ex-premier non pare essere tanto un effetto della senilità, quanto l’inevitabile contrappasso per una vita passata ad ascoltare solo le voci all’interno della propria testa, negandosi ogni possibilità di confronto col mondo esterno.
Una presa di posizione estrema che ci conduce a un paradosso notevole: nel suo dirci poco riguardo politica inglese, questo film ci dice moltissimo su come gli inglesi siano abituati a considerare la politica. Se agli occhi di uno spettatore italiano potrà sembrare crudele il fatto che la Thatcher ci venga mostrata come una persona vecchia e malata senza che questa immagine sia accompagnata da alcun sentimento di pietà, agli occhi di un anglosassone lo stesso procedimento apparirà invece giustificato dal ruolo critico che i media sono da sempre chiamati a svolgere nei confronti del potere. A tal proposito, vale la pena di tracciare un collegamento ideale tra due opere per certi versi omologhe come The Iron Lady e Il divo. A differenza di quanto avviene nel lavoro della Lloyd, nel film di Sorrentino il potente – nella fattispecie Giulio Andreotti – per quanto ci venga mostrato anche nella sua intimità, mantiene sempre dei tratti di imperscrutabilità. Un chiaro riflesso della distanza che ha caratterizzato il rapporto tra gli italiani e i loro governanti nel periodo della Prima Repubblica. A prescindere dal risultato (comunque ottimo), la distanza che separa i due approcci pare evidente. Se vogliamo cogliere a fondo il senso questa pellicola, forse noi mediterranei dovremmo concentrarci proprio sulla comprensione di questo scarto culturale. A quel punto, e solo a quel punto, sarà difficile sentirsi delusi.
Una lama che non ha smesso di ferire di Saba Ercole ******
L’intera società inglese nonostante la Thatcher sia scomparsa dalla scena da molto tempo, sta ancora “leccandosi le ferite”. Perché quel periodo ha provocato un cambiamento radicale, incredibile: così lo scrittore inglese Jake Arnott si è espresso a proposito di Margaret Thatcher, la “Lady di ferro” che per undici anni ha governato l’Inghilterra dal numero 10 di Downing Street. “Una ferita” che per alcuni ha reso il paese più forte, per altri ha posto le basi per una crescita diseguale della società. In entrambi i casi, ciò che si riconosce a Maggie è la capacità di aver inciso nella storia del suo paese come una lama nella carne, diventando uno dei personaggi più controversi del XX secolo. A questa donna forte e ostinata, la regista Phyllida Lloyd dedica un film che, più di una biografia, sembra essere un viaggio nei ricordi da parte di una Thatcher ormai anziana, malata, sbiadito ricordo della Lady di un tempo. In questo viaggio lungo il viale delle rimembranze, la donna è accompagnata dal “fantasma” del marito defunto (Denis Thatcher, interpretato da Jim Broadbent) che, alla stregua di un Virgilio ironico e accondiscendete, ripercorre con l’ex primo ministro le tappe della sua ascesa nella bolgia della politica.
Cosa è rimasto della forza, della tenacia di un tempo? Solo la volontà e i ricordi. La Maggie della Lloyd è una vecchia che non si rassegna a vivere in un presente fatto di malattia, in cui la sua volontà non può incidere né causare ferite; per questo, l’unico presente possibile è il passato, che l’ha vista, unica donna, farsi largo in un mondo di soli uomini. L’ascesa della Thatcher in politica è rappresentata in questo film come l’evidente sconfessione del binomio maschio = forza. Gli uomini che la circondano sono deboli, spesso inetti, più propensi al dialogo che all’azione, tendenti al raggiro e al tradimento. La capacità di decidere diventa una caratteristica femminile, per questo in The Iron Lady non vediamo una donna che deve farsi uomo per realizzarsi, bensì una donna che si realizza solo facendo leva su quelli che per lei erano gli attributi femminili; tra questi, il ruolo di moglie e madre assumono una valenza sicuramente secondaria. Nella corsa di questa donna, che ha consacrato la sua vita al paese, ciò che predomina è il singolo, l’individuo, l’ego. Nel suo chiedersi quando ha smesso di pensare agli altri, vi è un’esplicita (per lo spettatore), inconscia (per il personaggio) dichiarazione di fallimento politico, ancor più critica dei riferimenti che la regista fa alla guerra nelle Falkland o ad altre misure impopolari, come la poll tax, che mirano comunque a mostrare della Thatcher un ritratto non particolarmente edulcorante. Effettivamente, più che di un personaggio politico, sotto l’occhio della Lloyd la “Lady di ferro” assume le sembianze di una sovrana assoluta, cosa simboleggiata anche dalla fotografia, e dal linguaggio dei colori. Meryl Streep indossa il rossetto come se fosse il mantello porpora di una regina; il discorso di insediamento a Downing Street ripropone una preghiera di San Francesco d’Assisi (e i sovrani erano sempre legati alla dimensione del sacro); persino la sua uscita di scena avviene su di un tappeto di rose rosse, solenne come quello di una monarca.
I colori, così come i grandi spazi (le imponenti scalinate, la stanze del potere) appartengono però al passato. Il mondo presente della Thatcher è quello di una qualsiasi anziana, chiuso in una camera da letto priva di colori, bianca e nera, circondata da sole donne, che decidono per lei togliendole, dunque, la possibilità di agire, relegandola in quella dimensione “maschile” fatta di dialogo e non d’azione. Meryl Streep regge sulle sue spalle l’intero film, restituendo la Lady di Ferro attraverso un’operazione quasi calligrafica. A lei va il merito di essere riuscita, con la sua interpretazione, ad andare oltre la biografia, restituendo il cipiglio e l’incrollabile volontà di un’imperatrice dell’Io, il cui mito vive nel ricordo di una ferita, forse, ancora non completamente cicatrizzata.
Curiosità
Il tema del rapporto tra disturbo mentale e potere politico non è una novità. Da questo punto di vista, The Iron Lady pare essere stato anticipato con una certa vena profetica dai Pink Floyd. Il brano The Fletcher Memorial Home, composto da Roger Waters per l’album The Final Cut (1983), propone infatti l’istituzione di una clinica dove i potenti della terra (tra cui la stessa Thatcher), una volta dichiarati incapaci di intendere e di volere, possano essere rinchiusi e lasciati in balia di se stessi.
A cura di Marco Valsecchi
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