Bastardi senza gloria
Un gran intruglio. O come si dice da noi in Toscana, un “pastrocchio”. Ecco cosa ci è sembrato ACAB. Un frullato di cinema televisivo, condito con qualche riferimento alla cronaca italiana e con un retrogusto amaro che è la sua più grande ambizione mancata: il tentare di raccontare in modo anti-ideologico le vicende professionali e personali di un gruppo affiatato di Celerini romani e sconfinando invece in un affresco approssimativo, stereotipato e poco credibile. E questo nonostante la storia esca da un libro-inchiesta di Carlo Bonini, edito da Einaudi, sulle reali vicende di alcuni appartenenti alla Polizia di Stato italiana, ma dal quale gli sceneggiatori sembrano aver attinto in modo poco lucido e frammentario (leggersi sotto la sezione “Curiosità”).
Daniele Cesarano, Barbara Petronio e Leonardo Valenti sembrano infatti fin da subito voler rincorrere l’ambiguità dei loro personaggi per rimanere sospesi in un limbo dove seguire con distacco le loro vicende. Ecco come ci appaiono i loro Celerini: dei “bastardi senza gloria”, né morale, stretti fra la violenza sociale e quella delle curve da Stadio e obbligati essi stessi a rimediare in modo sbrigativo e poco diplomatico alle loro stesse vicissitudini familiari o private. Ma invece di lavorare sulla riduzione dei comportamenti e sulle dimensioni psicologiche, la storia fa implodere in modo schizofrenico i suoi Celerini: prima buoni, poi cattivi, poi di nuovo buoni e infine naturalmente pazzi. La sceneggiatura, minuto dopo minuto, traballa vistosamente, incapace di delineare un percorso coerente dei caratteri dei protagonisti, e senza nemmeno concederci qualche elemento che possa spiegare questa vistosa incoerenza (o semplicemente, la capacità di farcela comprendere con le immagini). Quando poi vediamo che “Cobra”, poliziotto fascistoide con tanto di busto mussoliniano in casa, si mette a pogare sulle note dei Clash, incominciamo a chiederci se il nobile tentativo di sospendere ogni tipo di giudizio politico e ideologico su una frangia impazzita di una squadra mobile non si trasformi invece con quello di disorientare furbescamente lo spettatore, di immergerlo in brodo rimestolato più volte dove può trovare tutto e il contrario di tutto: dal poliziotto fascista a quello pasoliniano, dagli immigrati integrati a quelli che non lo sono, dallo Stato che comprende ed assolve i suoi servitori a quello che li tradisce con una pugnalata alle spalle. Il giochetto di contaminare gli opposti e confondere i cliché è fin troppo distinguibile, diventa un cliché esso stesso, e più che una zona grigia leviana, con tutti i suoi gradi di differenza fra il bianco e nero, il film di Sollima ci appare una banda multicromatica indecifrabile, incapace non solo di offrirci una realtà stabile e concreta dove posare lo sguardo e indagare su uno spaccato sociale anche interessante, ma perfino di appassionarci a un cinema di genere ormai forse inquinato dalla mitizzazione televisiva dei “cattivi-a-tutti-i-costi” e della violenza spettacolare come veicolo della narrazione (Sollima dopotutto arriva dalla serie di Romanzo criminale). L’incapacità di dare coerenza a tutto ciò è amplificato dalla volontà di inserire nella narrazione riferimenti alle vicende reali della cronaca nera italiana: dall’assassinio della Reggiani, alle spedizioni punitive nazistoidi, dalle vicende della scuola Diaz di Genova fino all’omicidio del giovane tifoso Sandri. La dimensione filmica in questo modo si ingombra ancora di più, non ne vediamo la risoluzione ma piuttosto la sua irrimediabile stratificazione e dispersione in una retorica non volontaria, quella che tanto spaventava gli sceneggiatori, ma che alla fine è l’unica via di uscita, l’unica lettura possibile che il film riesce ad offrirci.
Se il succo del discorso filmico si ferma qui, qualcosa di contorno può anche sembrare piacevole: a parte l’imbarazzo di gestire cinematograficamente alcune scene di “massa”, Sollima al suo esordio da regista di cinema si muove con astuzia in una periferia romana simile a una banlieu francese e sceglie una macchina a mano quasi a voler girare un docu-film (forse più televisivo che cinematografico). Buona scelta delle musiche e un grande Favino, capace perfino di dare un senso alla scissione comportamentale del suo personaggio. Ma tutto questo non basta ad ACAB per emergere ed esplodere, quanto piuttosto di rimanere imprigionato in un magma eterogeneo ed informe, con tutte le sue ambizioni mancate. Abbaiando senza mordere.
Curiosità
Il romanzo di Carlo Bonini da cui è stato tratto ACAB, aveva un intreccio molto diverso da quello del film. Gli sceneggiatori Daniele Cesarano, Barbara Petronio e Leonardo Valenti hanno deciso di eliminare, dei tre poliziotti protagonisti del libro (Fournier, Drago e Sciatto) il primo e il terzo, e di “suddividere” in tre il personaggio di Drago, creando le figure di tre celerini reduci dal G8 di Genova.
A cura di Daniele Lombardi
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