Violenza e menzogne
L’ultimo film di Clint Eastwood batte le strade del biopic e del film politico, ma solo per accidens, come mezzo, non come scopo. L’intento principale, infatti, non è quello di delineare la figura di un “grande” uomo o il quadro politico degli Stati Uniti nell’arco di cinquant’anni, ma di ritrarre un Paese caratterizzato dalla violenza e dalle illusioni di promesse mai esistite attraverso la vita di uno che da quello stesso Paese ha ottenuto successo e gloria, forse per merito più delle sue bassezze e contraddizioni che delle sue virtù. J. Edgar si apre con l’esplosione di una bomba con la quale i rivoluzionari comunisti hanno attentato, fallendo, alla vita del procuratore generale Palmer e ripercorre le vicende di una nazione le cui colpe si lavano con il sangue, spesso innocente, come quello del piccolo Lindbergh, il cui scheletro in decomposizione, simbolo della purezza prostrata e martoriata dalle iniquità di un Paese abietto e falso, venne ritrovato per caso a poche miglia dalla tenuta di famiglia.
Ed è proprio in questa terra imperversata dalla violenza, in cui il passato è senza gloria e il futuro senza speranze, che può farsi strada una personalità come quella di J. Edgar Hoover. Uomo scrupoloso (fino alla patologia) nel suo mestiere quanto ipocrita con gli altri e con se stesso, impacciato con le donne (che vorrebbe conquistare per raggiungere uno status sociale inoppugnabile), omosessuale represso, ossessionato dall’ordine e dagli archivi catalogati, Hoover ha sempre vissuto con la madre, una donna autoritaria dalla quale ha imparato tutta quella serie di valori che egli riesce a rispettare servendosi della menzogna, del ricatto, dell’occultamento e della trasfigurazione della verità. Riesce a sopravvivere nelle intricate trame politiche degli Stati Uniti per mezzo secolo solo grazie a registrazioni di rapporti sessuali extraconiugali del presidente Kennedy e di lettere d’amore (lesbico) di Eleanor Roosevelt, alla mercificazione della propria immagine attraverso millantamenti di eroici arresti da lui mai effettuati e alla totale repressione dei propri sentimenti (come l’omosessualità) per raggiungere ordine e disciplina.
J. Edgar si serve di una fotografia fosca e solenne per descrivere un’America senza luce e senza eroi. Un film oscuro, che forse pecca di troppa disinvoltura in un’alternanza di passato e presente che rischia di far perdere il filo, ma per il resto funziona a meraviglia, sfruttando appieno la solidità della sceneggiatura e le arcinote capacità registiche di Clint Eastwood. Nei panni di Hoover, DiCaprio è da Oscar.
A cura di Riccardo Vanin
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