Il bello e il brutto dell’essere “umani”
Il tratto distintivo del cinema di McCarthy è il tocco umano e sincero con cui sa dipingere semplici affreschi di quotidianità. Quotidianità intesa come intreccio della vita famigliare con il lavoro e col normale relazionarsi all’altro. Lo si è visto in The Station Agent, tenera storia di ordinaria solitudine, e in L’ospite inatteso, racconto pacato e sereno di scontro-incontro col diverso.
Mosse vincenti segna un progresso nello stile piacevole del regista, che arricchisce il racconto di contenuti e di eventi, creando diversi subplot ben sviluppati, soprattutto dal punto di vista dell’arco del personaggio. L’ironia e le gag fanno capolino più volte e il lieto fine non manca – ma non segna cadute nell’ovvietà, quanto una fedele rappresentazione della vita reale e di quanto si possano affrontare le difficoltà finanziarie con responsabilità, mossi dall’obiettivo di fare felici i propri cari, senza inganni, costi quel che costi. E proprio qui sta il senso racchiuso nel titolo originale, Win Win, definizione presa a prestito dalla “teoria dei giochi” per indicare una situazione di equilibrio in cui ognuno ottiene ciò che vuole e pertanto tutti escono vincitori e “soddisfatti” di avere perseguito i propri obiettivi. Certo, nel cinema di McCarthy essere “soddisfatti” è una parola grossa. Non significa mai, infatti, essere “felici”, ma, piuttosto, essere contenti di essere riusciti a fare tutto ciò che è nelle proprie possibilità, senza “se” e senza “ma”; essere riusciti a costruire, cioè, in ogni partita giocata, tra misfatti e ravvedimenti, un clima finale di riappacificazione con se stessi e con l’avversario in campo. Con l’inevitabile dose di malinconia e percezione della propria limitatezza che questo reca con sé. Sì è parlato di diverse sottotrame. In effetti il film, che narra il percorso di crescita “morale” di un piccolo uomo di provincia (interpretato da un Paul Giamatti sempre e inimitabilmente low-profile) affronta numerose tematiche, declinate in altrettante storie di vita. Se il fil rouge è la storia di Mike/Giamatti, attorno ad essa ruotano la vita di Kyle, adolescente in cerca di un padre e rivelazione sportiva nella lotta greco-romana; quella della madre di Kyle, che non si cura del figlio ed è sempre in rosso, ma che, in fondo, è vicina allo spettatore per la sua imperfetta umanità; quella del nonno di Kyle, di cui Mike si prende gioco reputandolo, a torto, incapace di intendere e di volere; e infine le vicende della scalcinata squadra di lotta libera allenata da Mike e dal suo socio. Un intreccio decisamente più complesso rispetto a ciò a cui ci aveva abituati in precedenza il regista. Gli stilemi del “genere” indie aleggiano sulla pellicola, senza, però, deteriorarne le fondamenta: costituiscono, infatti, l’unica tipologia di narrazione idonea agli argomenti trattati – per lo meno, l’unica che riesce a trasmettere la verosimiglianza dei fatti, trasferendo in immagini storie dolci-amare di uomini comuni, impossibili da tradurre in una commedia, perché troppo poco divertenti, tanto meno in un dramma, poiché troppo “light-hearted”.
Il percorso registico di McCarthy – che è anche attore – non pare rivelare cedimenti: come sempre, l’attenzione ricade sui personaggi, rappresentati a tutto tondo nella loro umanità grezza, fatta di luci e di ombre – manicheismo, stereotipi e archetipi sono banditi a favore del realismo e della trasparenza narrativa. «Siamo fatti così» – pare dire McCarthy, in un discorso “ a tu per tu” con lo spettatore – «Anche se non saremo mai felici e perfetti, non disperiamoci, né ricorriamo a sotterfugi. Cerchiamo, invece, di aprirci al prossimo e di essere onesti con noi stessi. Perché l’unico antidoto per una vita serena è sapere di avere fatto quanto è nelle nostre forze per essere vincitori tra i vincitori (e non tra i vinti)».
Curiosità
Thomas McCarthy debutta alla regia nel 2003 con il film Station Agent, che si aggiudica numerosi riconoscimenti, tra cui il premio John Cassavetes, l’Independent Spirit Award per la “Miglior sceneggiatura d’esordio” e il BAFTA alla “Migliore sceneggiatura originale”.
A cura di Valentina Vantellini
in sala ::