Sotto questa Mole – 2 dicembre
Per quanto ogni edizione del TFF sia vissuta in modo diverso dall’altra, c’è sempre una costante con la quale ogni anno è necessario fare i conti: si arriva a fine manifestazione che non si è guardato tutto ciò che si voleva. Molte visioni cerchiate sul programma alla vigilia rimangono delle ambiziose dichiarazioni d’intenti, perché è così che va. Così, di solito, l’ultimo giorno si tende a recuperare ciò che si è perso nei precedenti, e con buona pace si mette da parte ogni velleitario tentativo di riposarsi gli occhi e i sensi.
Dall’altra parte a me mancava all’appello un film come Either Way, esordio di Hafsteinn Gunnar Sigurðsson, islandese che in futuro, almeno stando a questo film, farà parlare di sé. Semplicità narrativa e chiarezza stilistica, per uno sguardo che accarezza la vicenda di due operai islandesi (Finnbogi e Alfred) addetti alla manutenzione stradale, isolati in una landa desolata (quasi un deserto buzzatiano) e impegnati a disegnare strisce e piantare paletti.
Opera fortemente dialogistica, che si basa essenzialmente nel confronto fra le visioni di vita dei due operai: quella di Finnbogi e dei suoi problemi sentimentali e quella del più giovane Alfred, influenzata invece da una tempesta ormonale che trova sfogo in approcci più audaci con l’altro sesso. Il tutto in un’atmosfera che Sigurðsson fa precipitare in pieni anni ’80, con tanto di musiche a tema e relativo look (i vestiti di Alfred sembrano usciti da Ragazzi perduti) e inserita, attraverso l’uso di campi lunghi e lunghissimi, nei quadri paesaggistici di un’Islanda che pare una terra di nessuno: sospesa nel silenzio e nella solitudine dei due operai, una sorta di frontiera onirica lontana e alienata dalla realtà.
E più di ogni altro elemento filmico è proprio il paesaggio lunare di Either Way che è capace di rapire lo sguardo e Sigurðsson, sapendolo, sceglie la delicatezza di lenti movimenti della Mdp, di grandangoli che allargano lo spazio e di una fotografia che è una delle più curate dell’intero festival. Un rigore formale unito a un minimalismo narrativo che funziona e si fa contemplare.
Inseguendo la stessa scia minimalista, anche formale stavolta, sono riuscito a recuperare in “zona cesarini” la pellicola del moscovita Nikolay Khomeriki, Heart’s boomerang, immersa in un eccezionale bianco e nero d’altri tempi e che narra le vicende di un giovane a cui è diagnosticata una fine imprevedibile: il suo cuore può smettere di battere da un momento all’altro, senza preavviso. È una storia sul paradosso della vita e sull’incalzante ombra della morte, girato in un’algida Mosca innevata e giocato sull’anaffettività silente del protagonista e dei suoi rapporti sociali.
Uno squarcio di cinema interessantissimo, anomalo per stile e approccio narrativo che fa balzare agli occhi l’incredibile lucidità registica del ventiquattrenne Khomeriki.
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A cura di Daniele Lombardi
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