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Una separazione: i bambini ci guardano

I bambini ci guardano

Secondo film di Asghar Farhadi ad essere distribuito nelle sale italiane, Una separazione prosegue il discorso sulla verità e la menzogna, sul nascondimento e la dissimulazione come pratiche di vita costanti in un paese come l’Iran che il regista aveva già sviluppato nel suo precedente lavoro (About Elly). Anche questa volta Farhadi mette in scena personaggi di una borghesia agiata che vivono una vita apparentemente non lontana (veli a parte) da quella occidentale – appartamenti ben arredati, cellulari, computer, lavastoviglie, ecc. Questa volta, però, sceglie una via più realistica, meno rarefatta e metaforica, e una confezione più dimessa e dai colori meno brillanti. Se nel film precedente la programmaticità (la storia appariva come pensata più come illustrazione di problemi che non come costruzione narrativa in sé autosufficiente) andava a scapito della credibilità della vicenda (certi eventi, certe coincidenze apparivano troppo forzati), in Una separazione – pur rimanendo nell’ambito di un cinema in cui temi e problemi nascono prima della storia e in cui questa serve, programmaticamente, a far emergere i primi, talvolta ponendo direttamente delle domande allo spettatore – Farhadi riesce a raggiungere un più compiuto equilibrio.

Ponendo a confronto i due coniugi che stanno per separarsi, la prima sequenza intende esplicitamente mettere lo spettatore di fronte alla domanda che farà da sottofondo a tutto il film: lasciare l’Iran per cercare la propria libertà altrove o rimanervi per provare a cambiare le cose e non abbandonare le proprie radici? Come in About Elly la costruzione drammaturgica si impernia su un evento (in questo caso, un incidente che porta all’interruzione della gravidanza della badante) che fa venire a galla un insieme di conflitti nascosti. In questo film l’opposizione tra verità e menzogna si incrocia con quella fra tradizione e modernità e con quella tra ricchezza e povertà. Il complesso intrecciarsi di questi tre diverse dicotomie, crea combinazioni inaspettate (la menzogna o la dissimulazione, per quanto sgradevoli, possono essere una inevitabile necessità imposta dalle costrizioni materiali, la religione tradizionale può essere soffocante oppressione ma anche conforto e fonte di significato per chi è privo di mezzi, ecc.), che spesso arrivano a mettere in questione il nostro sguardo da occidentali che, nel “parteggiare” per la modernità contro la tradizione, finiamo spesso per non considerare quanto questa dimensione sia intrecciata con le altre appena citate. Una separazione ci impone dunque di riflettere sulle nostre identificazioni, al cinema come spettatori e nella vita come osservatori (da molto lontano) della realtà iraniana.

Il film di Farhadi – premiato a Berlino con l’Orso d’oro – ha il merito di creare personaggi complessi, mossi da una pluralità di moventi, talvolta fra loro contrastanti, sotto l’influenza di molteplici costrizioni (le condizioni economiche, la necessità della prudenza, il timore nei confronti delle autorità costituite) che ne limitano la libertà, imponendo condotte all’insegna della doppiezza e dell’inganno. Nessuno è completamente innocente e nessuno è completamente colpevole in questa storia, ma tutti sono immersi in un contraddittorio reticolo di vincoli e impedimenti. A sancire il carattere aperto e interrogativo del film è la presenza dei bambini. I bambini ci guardano, potremmo dire citando un titolo di De Sica – regista che Farhadi ha detto di considerare tra i suoi preferiti. Costantemente le azioni dei “grandi” sono infatti osservate dallo sguardo indagatore, partecipe, e talvolta disorientato, dei figli. Il modo intelligente in cui mette in gioco lo sguardo dei bambini – esplicitamente, il futuro del paese – è una delle qualità di questo film.

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