Amore e sangue
L’abitudine anglofona a riscrivere pellicole di cinematografie “minori” nella convinzione di fare meglio è dura a morire. Blood Story ne è l’ennesima prova. Il film si inserisce, in particolare, nel filone di recupero del cinema scandinavo, che ultimamente sta spopolando a Hollywood – basti citare il remake di Uomini che odiano le donne (Män som hatar kvinnor, 2009), diretto da David Fincher. Esaurita questa dovuta premessa, nulla toglie al fatto che Blood Story (titolo esito dei soliti magheggi della “traduzione” nostrana) sia un progetto ben confezionato, per niente stan-dardizzato e caratterizzato da una visione autoriale che mantiene dell’originale svedese i ritmi amplificati, pur cedendo a qualche scena horror in più.
Il regista Matt Reeves arriva dagli scenari apocalittici del found footage movie Cloverfield (2008): tanto per intenderci, un film di registro e stile totalmente opposto a questo Blood Story, che gli offre la chance per confrontarsi con un cinema più tradizionale e per dimostrare di essere davvero dotato di una propria personalità. Infatti, nonostante l’ombra di Alfredson si aggiri pre-potentemente durante tutto il lungometraggio – tra scene speculari, trama mantenuta invariata e inquadrature strettissime sui volti – i dialoghi leggermente ampliati e un image system ben definito (la carta delle caramelle Now or Later mangiate dal protagonista; il jingle del dolciume che lo stesso Owen intona all’inizio e alla fine del film; la mania di “spiare” attraverso la finestra e i muri del proprio appartamento…) imbastiscono una struttura narrativa ciclica e propongono una lettura originale dei fatti. Pare una coincidenza, ma in Blood Story le caratteristiche fisiche dei due protagonisti si invertono rispetto al film di partenza: Owen, il ragazzino vittima di bullismo, è castano, ma con lineamenti dolci e grandi occhi chiari (lo abbiamo già visto in The Road, 2009), mentre Oskar è il classico svedese, capelli biondi, pelle chiara; Abby, la vampira, è impersonata dalla bionda Chloe Moretz, che film dopo film convince sempre di più per la sua bravura di attrice e per quel suo volto particolare che la rende l’attrice più interessante della sua generazione. Una bella battaglia tra la Moretz e la bruna Lina Leandersson, che interpretava la vampira Eli nel film di Alfredson.
Tutto in questo film è carico di senso: i tempi dilatati; le parole centellinate frutto di un’accurata cernita; il contrasto tra il bianco puro della neve e il rosso del sangue; gli infiniti close up e i cambi di fuoco anomali (il volto di Owen in secondo piano è a fuoco, mentre in primo piano appaiono volti o oggetti sfocati); le inquadrature e i suoni mozzati (il primo piano della madre di Owen, di cui mai viene inquadrato il volto; la voce del padre intercettata dallo spettatore che la sente solo al telefono, come a presagire l’insussistenza delle figure materna e paterna). Ogni singolo dettaglio del film sottolinea, più delle parole, lo stato di abbandono in cui si trova il protagonista: una profonda solitudine, svuotata di amore e affetto che diventa il recipiente privilegiato non solo per un innocente voyeurismo che cerca la vita oltre le pareti di casa, ma anche per l’amicizia della perennemente solitaria vampira Abby, priva di legami e in fondo “costretta” a uccidere per vivere. Lo svilupparsi della profonda simbiosi che si instaura tra i due protagonisti – lei lo protegge dai bulli, lui la aiuta a vivere offrendole occasioni per cibarsi impenitente di sangue – è ciò che viene descritto dal film. Un amore/amicizia sui generis caratterizzati dalla dedizione totale dell’uno all’altro. Verrebbe da dire: altro che Edward e Bella!
Curiosità
Il film è tratto dal romanzo Lasciami entrare (2004) dello scrittore svedese John Ajvide Lindqvist, che scrisse lo screenplay per l’adattamento cinematografico di Tomas Alfredson. Nel film di Reeves manca la disturbante scena che svela, con un nudo totale, la natura androgina della piccola vampira, uomo dalla nascita, ma successivamente evirato.
A cura di Valentina Vantellini
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