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Un debito da dimenticare

Un debito da dimenticare

Dobbiamo ammetterlo: la meticolosa ricerca etica ed estetica del Munich di Spielberg o l’iconoclasta rappresentazione della vendetta tarantiniana di Bastardi senza gloria erano precedenti che potevano incuriosirci abbastanza per affrontare con spirito ottimista un nuovo film sul capovolgimento storico fra vittime e carnefici sullo sfondo l’orrore nazista. Ma sono bastati pochi minuti di visione per capire che Il debito è ben lontano dagli immaginari immersivi di cui sopra. E con tutta la pietas necessaria che possiamo concedere a un’opera onesta ed ambiziosa, siamo costretti a registrare poche cose buone e purtroppo molte cose da dimenticare nella nuova pellicola di John Madden (Shakespeare in Love).

Iniziamo dalle cose buone: su tutti il cast, ma in particolare l’interpretazione di Jessica Chastain, che già in The Tree of Life di Malick ci aveva piacevolmente colpito e che qui ci regala ancora una recitazione perfetta, complice un volto capace di codificare e rappresentare i sentimenti come pochissimi altri se ne vedono in giro di questi tempi. L’altra cosa davvero notevole poi è la colonna sonora di Thomas Newman, già autore delle musiche di film come American Beauty, Revolutionary Road e Wall-E. Ma questi, dicevamo, sono aspetti decisamente “collaterali” del film di Madden. E’ proprio strutturalmente che Il debito delude, tanto che c’è da chiedersi se un simile remake (la pellicola originale del 2007 è firmata da Assaf Bernstein) fosse davvero necessario.

Delude innanzitutto per una sceneggiatura che non riesce ad evidenziare con la dovuta profondità il ghost plot dell’intera vicenda, ma anzi si perde nell’eccessiva sovrapposizione di strati narrativi che non riescono mai a generare un intreccio credibile: dall’irreversibilità del ruolo “vittima/carnefice” fino al triangolo amoroso dei tre agenti del Mossad, Madden prova a mantenere alta la tensione che sembra però non avere solide fondamenta per coinvolgerci davvero fino in fondo. Manca qualcosa, si percepisce. Il tentativo coraggioso di contaminare universale ed intimo che Madden prova a inseguire per tutto il film va insomma a vuoto, fino a sfociare nelle ultime scene finali in un grottesco ritratto della “terza età in lotta” in un bagno di un ospizio che quasi ci fa sorridere piuttosto che inquietare. E se il cliché del “Chirurgo di Birkenau” che è rimasto più nazista che mai anche alla veneranda soglia dei novant’anni ci semplifica tristemente un po’ di cose, ciò che convince ancora meno sono anche alcune scelte di stile di Madden: dal montaggio che alterna in modo fin troppo didascalico presente e passato ai lunghi primi piani usati quasi come inserti inconcludenti piuttosto che come veri punti di riflessione. Un’occasione mancata, un abbozzo riuscito a metà, un ottimo cast sacrificato a un film che non riesce mai a decollare.

Curiosità
Tutte le scene ambientate nella Berlino Est anni Sessanta sono state in realtà girate a Budapest.

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