Cosa rimane dopo Venezia 68
Da qui in poi sono stati brividi e applausi, volti felici e stanchi, in sala stampa: le Coppe Volpi erano praticamente scontate, l’interpretazione di Michael Fassbender per Shame di Steve McQueen e quella di Deanie Yip (curiosità: il suo nome è scritto con almeno 2 o 3 grafie diverse, dal sito della Biennale a Imdb, dalla locandina cartacea ai vari siti web) per A Simple Life di Ann Hui brillavano sopra le altre di una luce intensa. E rende il premio ancora più soddisfacente il fatto che i due attori rappresentino realtà e storie di vita così opposte: da una parte il Brandon anaffettivo e solo, dilaniato da una fame carnale che lo lascia sempre più affamato e disgustato da se stesso; dall’altra Ah Tao, la personificazione della dignità umana e del rigore morale, della semplicità negli affetti e della loro sincerità, in un contesto famigliare che protegge e infonde calore. La press room era tutta con loro. La sensazione era quella di condividere una vittoria importante. Probabilmente è così che si sentono i tifosi di calcio.
Così come per l’annuncio del Leone d’Oro a Faust di Sokurov: è stato come un arrendersi al gigante, contro il quale si stava cercando in tutti i modi di combattere per tentare di abbatterlo. La giuria qui ci ha liberato dall’obbligo della battaglia: abbiamo deposto le armi e ascoltato il piccolo regista russo parlarci dell’ironia straziante dell’esistenza: “Oggi in Russia è lutto nazionale per la tragedia del Lokomotiv, la squadra di hockey scomparsa in un incidente aereo. Io sono russo ma ora sono qui e sono felice. Così è la vita”.
Il Leone d’argento a Peolple Mountain People Sea di Cai Shangjun invece è stato accolto con freddezza e commenti quasi indifferenti. Doveva vincere perchè è cinese, perchè era il film a sorpresa, perchè come sempre il film a sorpresa è cinese, perchè Muller è vestito da cinese, perchè Muller parla cinese, perchè Muller ama la Cina. La realtà è che il film lo hanno capito in pochissimi: un po’ perchè è stato interrotto dal quasi incendio (era una situazione più da “puzza di bruciato-tutti entrano nel panico”) in sala Darsena, un po’ perchè è un film effettivamente ellittico, che cerca in tutti i modi di lasciare aperte interpretazioni sull’azione, e infondere dubbi sull’identità dei personaggi (soprattutto nella seconda parte, ambientata in una miniera in cui tutti sono neri in volto e protetti dai caschi), cercando di far vedere il meno possibile, sceneggiare il meno possibile. Rimane l’ultima, bellissima scena, come un dipinto di una landa postapocalittica o di un girone dell’inferno: il fumo morbido, nero, che sale dalle macerie come seta, i fuochi che bruciano tutto attorno, un uomo che si aggira, ormai solo, sopra quella che si è strasformata in una tomba di cenere e sassi.
Rimangono tante cose nella mente dopo questa Venezia: sicuramente le visioni allucinate dal sonno di Solondz (un sonno nel sogno, un totale avvitamento tra cinema e realtà), Alfredson (i ricordi sono sparsi, dalla faccia impassibile di Gary Oldman alla dominante marrone della fotografia, fino alle lampade anni Sessanta che puntellavano le inquadrature) e Friedkin (una confusione totale fino alla scena della coscia di pollo, che ha avuto la potenza di svegliarmi e farmi contemporaneamente eccitare).
Rimangono le feste, e lo stupore di riuscire a entrare dove di solito nemmeno volevi entrare (errore, la metafora della volpe e l’uva è verissima), il bagno notturno davanti all’Excelsior, i panini del Pecador e il Pecador, isola felice del Lido (ma ridategli una location con sedie , tavolini e perchè no, tettoie); rimangono le persone, volti da ritrovare, riscoprire, rivalutare. Rimane lo stupore per la bellezza indescrivibile di Kate Winslet e la sua vomitata esorcizzante; rimangono i tentativi di stalkeraggio nei confronti di Gabriele Spinelli (sì, tra Clooney, Franco, Fassbender, Pacino io scelgo un esordiente italiano, sono fatta così); rimangono gli incontri ravvicinati con McQueen, Franco che se la cammina per il Lido con la telecamerina in mano, Fassbender a cui abbiamo gridato in cinque “Coppa Volpi, Coppa Volpi” (alta critica d’assalto, ma amiamo farci riconoscere); rimangono le volate e le feste al Lancia Cafè che ormai – ce la tiriamo – è la nostra seconda casa. E rimane l’orgoglio e la gratitudine infinita di aver portato lì il Mouse d’Oro e i suoi giurati, per due chiacchiere, per guardarsi in faccia e iniziare a capire che, in effetti, “esistiamo”.
Venezia ti fa ripartire da capo, ogni volta. Rimane la voglia di vedere più cinema e di recuperare le lacune. Rimangono quindi dei progetti per il futuro, un po’ di mal di schiena in più, la voglia di non fermarsi.
A cura di Francesca Bertazzoni
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