Aspetta e spera
7 settembre 2011
Metto insieme alcuni pensieri sparsi, così da fare un po’ di ordine, visto che gli ultimi giorni mi hanno riservato non poche sorprese (tra cui: un andata/ritorno Milano/Venezia in tempi record, una tempesta di fulmini, uno sciopero paralizzante, una fuga degna di un film di Johnnie To, un presunto principio di incendio in Sala Darsena, il film migliore della Mostra, il film quasi peggiore della Mostra, e altro). Fare ordine, fare spazio, pulire le “prime impressioni” e trasformarle in pensieri, con un capo e una coda, serve, aiuta, fa crescere lo sguardo. Altrimenti ci si ferma davvero alla superficie. E i film, non tutti certo, hanno esigenze precise, talvolta pretendono di essere rivisti. Oppure, semplicemente visti. In questi giorni non ho visto Tinker, Tailor, Soldier, Spy, di Tomas Alfredson, Il villaggio di cartone, di Ermanno Olmi, Himizu, di Sion Sono, Wuthering Heights, di Andrea Arnold. Ma ho visto tutto questo.
Tao jie (A Simple Life), di Ann Hui (in Concorso): patti chiari e amicizia lunga, è il film più bello della Mostra. La regista, Ann Hui, classe 1947, è una delle più acclamate di Hong Kong con venticinque lungometraggi alle spalle, di cui nessuno distribuito in Italia (mi pare). Speriamo, quindi, che questo film non subisca la stessa sorte e non rimanga un disperso, perché si tratta di un esempio di cinema tenero, vero e importante, dove si affrontano i temi della vita con pudore, intelligenza, ironia, sentimento e passione.
La storia: Ah Tao, per sessant’anni al servizio della famiglia Leung, si ritrova sola con Roger, l’unico a essere rimasto a Hong Kong mentre gli altri emigravano. Lui la curerà e la porterà al cinema a vedere il suo film (lavora nell’industria cinematografica), accompagnandola negli ultimi momenti della vita. Un film che commuove senza rubare dignità allo spettatore. Il film più giusto che dà valore ai ricordi.
Ren Shan Ren Hai di Shangjun Cai (in Concorso) tradotto con il titolo People mountain, people sea. La prima parte funziona e incuriosisce: un uomo va a fare un giro in moto con un altro uomo, su polverose e sperdute montagne, tira fuori un coltello e lo uccide. Si scoprirà che l’ucciso è fratello di Lao Tie, un tipo incazzoso ma per niente frenetico, il quale deciderà di dare la caccia all’assassino manifestando tutta la rabbia finora repressa. La seconda parte del film è meno efficace, chiusa dentro una miniera asfissiante. È un film che conduce direttamente all’inferno, duro e scarno, ma che si sgretola lentamente. A volte sembra che Shangjun Cai non riesca a controllare totalmente la rabbia. La sorpresa resta anche perché il film si appropria di una profondità inaspettata.
Louise Wimmer, di Cyril Mennegun (Settimana della Critica). Sceneggiatore e regista, Mennegun debutta nel lungometraggio di finzione con un cinema sociale di razza che racconta una delle tante tragedie umane dei giorni nostri. Louise Wimmer, cinquant’anni (poco più o poco meno), è una donna senza dimora che trascorre le notti nella propria automobile e le giornate facendo le pulizie in un albergo, si lava nei bagni pubblici, mangia con audacia nei self-service. È capace di riciclarsi, insomma. Non è sola (c’è pure un amante, un simpatizzante e una figlia), ma vive da sola, per scelta. Resiste, lotta e vince. Il film convince: semplicemente racconta la crisi senza risultare patetico.
Quando la notte, di Cristina Comencini (Concorso). Tratto da l’omonimo libro della regista, il film inizia col raccontare l’inquietudine di una madre (Pandolfi) alle prese con il proprio bimbo e la solitudine e i pianti e l’angoscia di non riuscire a crescere da sola il piccolo Marco (il papà non si vedrà mai). Il set è montuoso (insolito, unico aspetto interessante). In casa abita Manfred (Timi), una guida, un montanaro, con altri due fratelli cresciuti in pratica senza madre, che ci vede poco (senza occhiali o senza lenti – la regista ci tiene a ricordarcelo più volte). A un certo punto sembra che il film prenda le pieghe di un horror (cita Shining, spero se ne siano accorti) ma poi frana vertiginosamente nella “Valle delle spiegazioni”, dove a tutti i costi bisogna dirsi frasi tipo “ti ho tenuto dentro” oppure “la mia gamba mi faceva pensare a te”. Imbarazzante e didascalico all’eccesso. Un’altra cosa: sono mesi che si vede un’immagine promozionale del film con Timi che abbraccia la Pandolfi. Ma a nessuno è venuto in mente che quell’immagine svela il finale e toglie pathos a uno dei pochi momenti tesi del film?
The Exchange, di Eran Kolirin (Concorso). L’israeliano di • La banda torna con un film strano, divertente e casalingo. Esistenzialista. Tutto ruota intorno al punto di vista di un uomo che cambia, gira su se stesso, si altera e trasforma in novità tutto ciò che ha già visto. La casa non sembra più la stessa: gli oggetti, i mobili, le cose sono nello stesso posto ma sembrano diversi. Le persone sono inseguite, spiate, tenute a distanza di sicurezza per essere viste meglio, per essere osservate da una posizione privilegiata che consente di scoprire nuovi particolari. A un certo punto ci si sente come fantasmi, leggeri, impercettibili. Ma condividere una posizione così esterna non è facile e alla fine si arriva al capolinea. L’idea funziona (a chi non è mai capitato di provare un senso di smarrimento dentro un luogo familiare, conosciuto?) ma l’ingranaggio ogni tanto sembra incartarsi.
Il linguaggio dei machete, di Kyzza Terrazas (Settimana della Critica). Messicano, già sceneggiatore di Deficit, diretto da Garcia Bernal, Terrazas racconta la storia di Ray e Ramona, attivista politico lui, cantante punk lei, che arrivano alla decisione di compiere un attentato. Si vogliono far esplodere. Il film però preferisce seguire i risvolti romantici e drammatici della vicenda e si sofferma sulle reazioni dei due protagonisti che sembrano essere costantemente posti davanti ad un bivio. Immagini movimentate, ruvide, qualche ferita di troppo semplificata e un finale che non t’aspetti.
A cura di Matteo Mazza
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