Bronson: La violenza come forma d’arte
Era necessario essere presenti al Torino Film Festival del 2009 per capire quanto la filmografia immersivamente pulp di Nicolas Winding Refn fu amata fin da subito da un pubblico, quello italiano, che a malapena conosceva il suo nome accostato a quella famosa “trilogia” low-budget di Pusher che solo pochissimi amanti del genere avevano avuto la fortuna di vedere. La retrospettiva Rapporto Confidenziale di allora ebbe il merito di portare all’attenzione di molti le straordinarie immagini di un autore capace di contaminare storie criminali di degrado metropolitano con uno stile registico mozzafiato, fatto di movimenti di macchina azzardati ma precisi: allucinazioni filmiche allo stato puro. E poi sangue. Tanto sangue.
Così, mentre all’ultimo Festival di Cannes, il nuovo film di Refn (Drive) si è portato a casa il premio per la miglior regia (forse l’affermazione definitiva per un talento europeo come ce ne sono pochi oggi), in Italia si inizia a distribuire i suoi film. Incominciando proprio con questo Bronson, che fra tutti i passati lungometraggi del regista danese è forse quello che segna un punto di svolta cruciale nella sua carriera: con Bronson, Refn sembra accettare le regole dello showbiz e delle medio-grandi produzioni. Ma, come vedremo, senza tradire la sua vocazione iconoclastica e autoriale, anzi, concedendosi il lusso di raccontare una storia totalmente “refniana” con mezzi più raffinati ma per questo non meno suggestivi. Eccolo dunque questo Bronson: un viaggio irresistibile nella vera storia del “detenuto più violento del Regno Unito” (Michael Peterson interpretato da Tom Hardy), che ha sulle spalle (ancora attualmente da scontare) 35 anni di prigione, 30 dei quali in regime di isolamento (senza aver mai commesso crimini di sangue). Bronson è semplicemente, estremamente e allegramente un violento. Così violento da iniziare le sue risse picchiando il maestro di scuola elementare e scaraventargli una sedia sulla schiena. Così violento da distruggere le prigioni in cui lo ingabbiano, farsi un suo pubblico fra i detenuti ed essere costretto ad essere trasferito di volta in volta. Così violento che cambia il suo vero nome in Charles Bronson, con tutta l’evocazione di una violenza che diventa anche celebrità. Bronson andrà a perseguire così ostinatamente la sua devozione alla furia e alla brutalità fino a scardinare i meccanismi di un sistema che non prevede un elemento per cui la cella del carcere è “una camera d’albergo” e sarà costretto a liberarlo, rappresentando un costo esorbitante per le casse dello Stato. Il rimando ad Arancia meccanica (passando da Natural Born Killer fino a Fight Club) insomma è esplicito e diretto, ma la lettura della violenza nella società si spinge ben oltre i confini kubrickiani. Per il protagonista la violenza infatti diventa “vocazione”, destino da perseguire con tutte le forze per “creare un impero”, “diventare qualcuno”.
Refn, con uno stile registico condito da un’ironia travolgente (Bronson prima delle sue imprevedibili esplosioni di violenza è a tutti gli effetti un vero e proprio gentleman inglese), riesce a trasformare la violenza come una forma d’arte, uguagliabile alla pittura o al bel canto. E’ con questa surrealtà che un sadico – accompagnato dalle musiche di Giuseppe Verdi – fa della propria indole feroce e del proprio stesso corpo, uno spettacolo raffinato. La violenza per il regista danese diventa insomma opera artistica distruttiva. Teatrale e devastante.
Curiosità
Al vero “Bronson”, Michael Peterson, le autorità non hanno permesso di vedere il film. Ma Refn ha saputo che il detenuto è riuscito ad “ascoltare” la sua opera al telefono. Considerandolo il film più bello di tutti i tempi.
A cura di Daniele Lombardi
in sala ::