X-men – L’inizio: Le mutazioni di Vaughn
Dopo la direzione di un film di supereroi al di fuori delle righe, ovvero Kick-Ass (idem, 2010), Matthew Vaughn è ormai diventato un regista di culto delle nuove generazioni, e soprattutto per i nerd. Risulta quindi azzeccata la scelta di affidarsi a lui per il reboot del franchise X-Men, soprattutto dopo un terzo capitolo loffio (X-Men – Conflitto finale) e uno spin-off alquanto sotto le aspettative (X-Men le origini – Wolverine). C’era bisogno di aria fresca, soprattutto perché il nuovo capitolo della saga dei mutanti, X-men: L’inizio, si discosta temporalmente dai precedenti: è un prequel ed è ambientato quasi interamente negli anni Sessanta. E Vaughn risponde alle richieste apportando, come già in Kick-Ass, uno stile registico in linea a quello visuale dei fumetti: split screen, colori pompati ed effetti speciali.
Vaughn mette in primo piano il decòr: ogni ambiente spicca per i suoi colori e la sua scenografia. Se all’inizio il setting è quello della seconda Guerra Mondiale e dei campi di concentramento, dove la predominante è grigia, si passa poi alle tende rosso-porpora e bicchieri di cristallo nei salotti alto-borghesi, nascosti in night club immersi in una classica Las Vegas anni Sessanta. Le atmosfere si fanno giallo-polverose nella pampa western Argentina, dove si sono rifugiati i nazisti. Futuribili sono invece gli interni dei laboratori, che uno dei mutanti (laureatosi ad Harvard a 15 anni) gestisce, ma senza perdere la loro ambientazione sixties: non è un computer a stampare i dati, ma una banale macchina da scrivere. Fino allo scontro finale avverrà dentro un angusto spazio infinito, dove a moltiplicare la realtà sono una serie di specchi che si riflettono uno contro l’altro. X-Men: L’inizio racconta la nascita del conflitto tra gli stessi mutanti, tra chi non accetta le regole degli umani, e chi invece crede ancora di riuscire a trovare un giorno una convivenza pacifica tra le due specie. Se gli X-Men sono in fondo un’allegoria degli adolescenti che scoprono un corpo in cambiamento, in questo capitolo la svolta “storica” rivela che a cambiare il mondo nei lontani anni ’60 sono stati proprio loro, i mutanti. Nel cast spiccano in particolare i due protagonisti principali: il professor X, interpretato dallo scozzese James McAvoy, che pur essendo mutante non si lascia trasportare dalle proprie emozioni, e il futuro Magneto (Micheal Fassbender) che al contrario è mosso da un unico sentimento: la rabbia. Tra le file dei cattivoni anche la bellissima (ex mogliettina frustrata di Mad Men) January Jones, dura e indistruttibile come un diamante.
Non mancano questi spunti comici nella narrazione, soprattutto quando vengono dipinti i retroscena degli ambienti politici vouyeristi o ancor più tra gli eserciti russi e americani in attesa. A volte le scene sono prevedibili (ma con una volontà di ostentarne la prevedibilità quasi). È un universo molto pop quello di Matthew Vaughn, colorato, divertente, e senza dubbio fumettistico. Non si può dire che non ci abbia messo un po’ del suo stile, ridando un tono alla saga dei mutanti, che oltre ad essere adolescenti in cambiamento, rappresentano un po’ tutti noi che ci sentiamo diversi in una società di consumisti di massa, così uguali l’uno all’altro.
Curiosità
Il personaggio di Erik, futuro Magneto, è stato scritto ispirandosi ad alcune caratteristiche di James Bond: colto, dandy, freddo e perfettamente addestrato.
A cura di Nicole Braida
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