Il dilemma: Né carne, né pesce
Pare che Ron Howard abbia esaurito tutta la sua verve comica nella parte del Richie Cunningham dei tempi di Happy Days (1974-1984). Alla seconda commedia della sua carriera registica dopo Il Grinch, Howard non sembra infatti brillare per padronanza del genere. Sarà la complessità del tema trattato, sarà il ricorso ad attori non proprio “simpatici” (Vince Vaughn non ha mai convinto troppo con la sua scarsa varietà espressiva), ma Il dilemma non colpisce al cuore lo spettatore, come hanno saputo fare a loro tempo diverse altre pellicole howardiane, da Cocoon (1985) ad A Beautiful Mind (2001). Non che la struttura narrativa del film perda pezzi a destra e a manca: la sceneggiatura, da questo punto di vista, tiene. Piuttosto, a stonare è la volontà di caricare troppo la storia con citazioni metacinematografiche e di crossare i generi comici in un patchwork di cui si notano troppo i confini tra una pezza e l’altra. I riferimenti al cinema abbondano, ma le battute giocate su di essi non sono poi così immediate. Così le ricche citazioni da Miracle, di Gavin O’Connor (2004), sulla storia dell’ex-giocatore che allenò e portò alla vittoria olimpica la squadra statunitense di hockey sul ghiaccio, peccano per mancanza di interculturalità, a svantaggio – soprattutto – del pubblico nostrano (lo stesso vale per i frequenti parallelismi tra le mosse dei giocatori e la situazione intricata in cui si trova Ronny). Anche il “pun” giocato sull’espressione “gola profonda”, che rimanda sia allo storico film pornografico con Linda Lovelace (Gerard Damiano, 1972), sia all’informatore segreto che scatenò lo scandalo del Watergate, pare andare parecchio oltre la cultura del pubblico medio.
L’impasto di generi comici di cui si compone il film stenta a conferirgli un sapore inedito e genuino. Fondamentalmente strutturato secondo i canoni del bromance, il film aggiunge elementi della screwball comedy moderna, caratterizzata da personaggi eccentrici e innocuamente folli (vedi la sorella del protagonista e il personaggio interpretato da Channing Tatum) e dalla riunione finale di tutti i personaggi in un unico luogo (qui al cospetto del terapeuta dottor Rosenstone) per sbrogliare il filo della matassa. Nel film, tra l’altro, si avverta anche il tentativo di fare da contraltare alla scena della tavola calda in Harry ti presento Sally (Rob Reiner, 1989), con risultati, però, drammaticamente ironici. A sconcertare, all’interno della pellicola, sono anche gli sporadici inserti extradiegetici che illustrano lo scarto tra la realtà e le ricostruzioni degli eventi da parte del protagonista. Questi incisi risultano male amalgamati e troppo esigui per potere davvero costituire un elemento strutturale distintivo del film. La loro presenza è, infatti, giustificata solo dalla ricerca di un escamotage di montaggio che possa aiutare lo spettatore nella comprensione della battuta a cui essi sono associati. Che dire poi del monologo di Vince Vaughn/Ronny sulla panchina antistante un cinema a luci rosse? Il confronto tra il protagonista e un’entità superiore, spesso Dio, è un classico dell’immaginario cinematografico, ma perde ef-ficacia in bocca all’attore dell’Illinois. Ma veniamo a ciò che forse più disturba lo spettatore, ov-vero l’incessante e ostentato product placement. Ci sono tratti del film che paiono più un inno all’industria automobilistica statunitense che un elemento di contorno e di contestualizzazione del film. Stiamo parlando della onnipresenza del marchio e del gruppo Chrysler, per cui Ronny e Nick stanno costruendo un prototipo di motore elettrico che simula la potenza di quello tradizionale. Sarà un caso che il regista voglia fotografare questa realtà proprio nel momento della sua massima de-americanizzazione dopo l’acquisizione parziale da parte di Fiat? Altra nota dolente è la colonna sonora: nonostante lo zampino del veterano Hans Zimmer e l’energica Detroit Rock City dei Kiss, si riconosce uno sfasamento sostanziale tra la musica e il girato. Il soundtrack, in poche parole, viene spesso usato per sopperire alla scarsa dinamicità del montaggio. Lo stesso vale per i ridondanti establishing shots di Chicago, aggiunti per simulare ritmo oppure per omaggiare le sit-com, ma mai funzionali alla storia narrata.
A fronte tutte le critiche che si possono fare sul versante della forma, si deve però riconoscere al film una profondità inattesa dal punto di vista contenutistico. Un esempio è dato dai dialoghi: sebbene poco cinematografici, in quanto lunghi e atipici, a causa dell’assenza di un beat costruito sul botta e risposta, essi riescono a restituire un’immagine verosimile dei rapporti di coppia e dei rapporti di amicizia. Se non fosse per questa loro capacità di analisi, le difficoltà che si innestano inevitabilmente nelle relazioni con l’altro sarebbero risultate senza dubbio farsesche. A soppesare i pro e i contro inerenti a Il dilemma, in definitiva, pare proprio che Ron Howard si sia servito del film come esperimento per capire se la commedia sia o meno nelle sue corde. Evidentemente la risposta non può che essere negativa.
A cura di Valentina Vantellini
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