The Tree of Life: 2011 Odissea nella vita
Pieno di grazia di Sara Sagrati
Che un film del genere sia stato prodotto ha del miracoloso. Per intenderci, ciò che gli si avvicina di più è quel 2001 Odissea nello spazio che nel 1969 era campione di incassi e oggi farebbe gridare all’orrore (sigh!) un qualunque produttore/distributore/spettatore medio. The Tree of Life rappresenta infatti un’opera sontuosa e ambiziosa, magari anche pretenziosa. Terrence Malick abbatte ogni barriera spazio temporale, logica e razionale, e si immerge totalmente nella coscienza di una donna, di un uomo, di una famiglia, dell’intero universo. Nei suoi brevi e interminabili 138 minuti, si dipana una sinfonia audiovisiva capace di raccontare l’inizio e la fine della vita. Di un individuo, di tutto il cosmo.
Un’opera (riduttivo chiamarla semplicemente film) impossibile da analizzare dopo una sola visione. Di certo negli anni a venire The Tree of Life sarà soggetto/oggetto di orde di saggisti, critici, tesisti, così come le scelte visive saranno sicuramente seminali. Perché, al di là del “significato”, qui il “significante” è composto da tale perizia tecnica, tanto da meritarsi uno studio a parte. La macchina da presa danza creando movimenti che di per sé sono già poesia, fondendosi con ombre, azioni e musica. Per non parlare degli effetti visivi a cui ha collaborato anche il leggendario Douglas Trumbull, corresponsabile della realizzazione della Porta delle Stelle di 2001 Odissea nello spazio (coincidenza?); del montaggio, passato per ben cinque coppie di mani diverse e durato oltre un anno; della sontuosa partitura musicaleda Brahms a Preisner. Ma sarebbe riduttivo fermarsi a questo aspetto, perché The Tree of Life parte da una perfezione stilistica, ma si propone di esprimere il significato della vita, i suoi segreti, interrogandosi (laicamente?) sulla dicotomia tra Natura e Grazia (di Dio), tra Fato e Autodeterminazione.
Un film non per tutti – certamente non per il mercato, sicuramente non per il pubblico medio – ma sul tutto. Alla visione bisogna arrivare preparati (preponderanza di voce fuori campo, quasi assenza di dialoghi, esplosioni cosmiche, scene preistoriche): Malick usa la Storia (dal big bang alle moderne città di vetro) per raccontare la nascita e la morte, la carne e lo spirito, l’attesa e la vita. Se per Kubrick la nostra coscienza è nata con la tecnologia, Malick parte dalla fisica che già contiene l’amore e la pietà, Dio e la sua assenza, la natura e la tecnologia, l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. Un film pieno di Grazia che guarda alla natura del mondo e dell’essere umano, che ci assolve e ci perdona, come fosse un metaforico ponte tra noi e il divino che è in noi. Amen.
Massimi sistemi di Riccardo Vanin
Guardando The Tree of Life, il nuovo film di Terrence Malick, Palma d’oro a Cannes, viene spontaneo alla mente un parallelo con il 2001 di Kubrick, e non solo per i trip cosmico-psichedelici. Entrambi i film vogliono essere opere totalizzanti, come solo i grandi capolavori possono essere. Parlano di massimi sistemi, come la vita, la morte, il progresso. Sono presuntuosi? Sicuramente. Di certo il coraggio di 2001 – Odissea nello spazio gli ha fatto superare la prova del tempo. Ci riuscirà anche The Tree of Life? Probabilmente sì. I punti di vista di Kubrick e Malick sono però opposti: il primo si proiettava nel futuro, partendo dalla preistoria, e risolvendo la dinamica del progresso secondo la figura della spirale, nell’ottica nietzschiana dell’Eterno ritorno; mentre il regista texano si ancora al qui-e-ora, ampliandolo all’ovunque-e-sempre, ricercando la costante che racchiuda il mistero della vita e della morte, dalle origini dell’Universo sino a oggi.
Malick porta alle estreme conseguenze l’approccio panteistico che lo ha caratterizzato, in particolare in La sottile linea rossa. Le voci fuori campo, come in altri film di Malick, non narrano, si interrogano, e non spiegano, si tormentano ancora più di dubbi. Il senso di due ore e quindici di immagini – naturali, cosmiche, artificiali – e voci sta nella ricerca, una ricerca massimalista, che non si vergogna di essere pleonastica e ridondante e che osa ricercare la continuità e un senso compiuto in una narrazione frammentata, manipolata e ondivaga, a tratti caotica. The Tree of Life assume su di sé un fascino joyciano, rompendo con ogni convenzione narrativa, che spiazza per l’innesto nelle vicende della famiglia O’Brien di squarci astratti (l’Universo) e di quadretti preistorici (i dinosauri, che forse si potevano evitare…). La fotografia trasuda leggerezza, ma la regia è assolutamente indiscreta e spassionata. La telecamera danza con i protagonisti, gira loro intorno, li bracca, ma non si immedesima mai nei personaggi (a parte una rapida soggettiva della signora O’Brien in volo su un deltaplano). Lo sguardo del regista si pone al di fuori di tutte le vicende, arriva ad ammirare la Via Lattea dall’esterno, e osserva la vita nel suo processo di creazione e distruzione, nella sua immanenza; ma questo lo può fare proprio in quanto occhio estraneo alla Storia, un osservatore non partecipe e disinteressato. “Come facciamo a sapere se non osserviamo?” si chiede il giovane Jack dopo aver torturato crudelmente una rana.
Vi è anche un evidente omaggio a Fellini. Curzio Maltese parla del film come di un “Amarcord texano”; piuttosto, l’ultima scena, con Sean Penn, vestito di tutto punto, sulla spiaggia che rivede se stesso bambino e tutte le persone che hanno partecipato alla sua vita, sembra venire da 8 e ½. In breve: questo capolavoro di Malick contempla come tutto sia vita e tutto sia morte, riflette sulla casualità dell’esistenza umana (che il regista fa prevalere sulla visione dell’“uomo artefice del proprio destino” del severissimo padre di famiglia Pitt) e si limita a osservare l’immensità del tutto nella consapevolezza che l’essere umano è niente (palese la citazione di Giobbe, l’esempio dell’uomo retto che ha perso tutto).
Curiosità
Terrence Malick aveva in cantiere un progetto dal titolo Q alla fine degli anni Settanta, quando uscì I giorni del cielo, che aveva l’ambizione di raccontare l’origine della vita. Ci sono voluti quindi quarant’anni prima di riuscire a realizzarlo, anche grazie alla determinazione di Brad Pitt e della sua Plan B che lo ha prodotto.
A cura di Sara Sagrati
in sala ::