L’Arte è un gioco da precari
Chi si sia trovato ad osservare un’opera d’arte contemporanea avrà avuto l’occasione di esclamare, almeno una volta, “avrei potuto farlo anch’io!”. La facilità, oserei dire la banalità, dell’esecuzione tecnica dell’arte contemporanea è un luogo comune piuttosto diffuso, a cui fa da contraltare il solipsismo e la difficoltà interpretativa che si ritiene molte opere abbiano. Spogliata del concetto di genio, non ancora pienamente storicizzata e quindi soggetta ai capricci della critica, l’arte contemporanea è qualcosa di accessibile a chiunque, artisti e intenditori che siano, come appunto dimostrano i protagonisti dell’opera di Giovanni Albanese.
Se non fosse per la caratterizzazione incolore dei protagonisti, per il macchiettismo banale e fine a se stesso, per l’immancabile finale buonista, la commedia di Giovanni Albanese sarebbe potuta essere un’ottima occasione per fare un film, più che sul problema del lavoro, sull’arte e l’arte contemporanea in primis. Due momenti, in particolare, lasciavano immaginare ben altro spessore: la scena della distruzione luddistica, da parte dei tre, delle scorte di pasta e di salsa, simile a una vera performance artistica e il parallelismo tematico tra la meccanizzazione del processo produttivo nella fabbrica dei protagonisti e la meccanizzazione del processo artistico. Così come la macchina sostituisce gli operai nel pastificio, allo stesso modo questi ultimi mettono in piedi un sistema di falsificazione delle opere che si regge proprio su quella che Walter Benjamin definiva la caratteristica peculiare dell’arte del nostro tempo, appunto la riproducibilità tecnica.
Questo parallelismo tematico avrebbe meritato un adeguato svolgimento a livello di trama, ma in realtà rimane sospeso e il film procede sui binari della commediola banale e buonista, che spreca una gran bella occasione per affrontare un tema, anzi un problema, quello dell’arte, che la settima arte poche volte ha realmente affrontato di petto (e forse in tal senso insuperato rimane il film di Orson Welles, F come Falso). Rimangono le fin troppo facili frecciatine a critici e galleristi, un buonismo di cui si poteva benissimo fare a meno, e una commediola destinata a lasciare, nella cinematografia contemporanea italiana, la stessa scia di molti artisti-meteore: assolutamente insignificante.
A cura di Saba Ercole
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