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cultura dell'immagine e della parola

Vecchio stile per paure rinnovate

Vecchio stile per paure rinnovate

Al cinema John Carpenter ci aveva lasciato nel 2001 con il godibile, seppur minore, Fantasmi da Marte. Lui che non è un novellino (a gennaio di anni ne ha fatti sessantatre), fa le cose sul serio: si potrebbe dire che fa le cose bene da paura. I primissimi minuti si direbbero dozzinali: tempesta, tuoni fragorosi, un omicidio, brusco e truce come solo in un horror può essere. Ma nel manierismo di questo prologo, colpisce un’intuizione registica, che solo l’occhio esperto del veterano può realizzare in immagini: carrellata in avanti attraverso un corridoio qualsiasi, rapido ammazzamento, e seconda carrellata simmetrica alla precedente (all’indietro, con lo stesso sfondo). L’imprevedibilità del Male e la sua pronta ritirata (che è sempre temporanea) sono gli elementi che l’intero genere horror ha sempre voluto evidenziare. Qui sono riassunti in qualche secondo di filmato. Gli inquietanti titoli di testa che seguono sono un autentico gioiellino, un abile montaggio di immagini raffiguranti torture, medievali come moderne, ricalcate su vetri che si infrangono seguendo il ritmo e la melodia quasi eterea della colonna sonora.

Inizia il film vero e proprio. La bionda protagonista fugge nel bosco, le sue tendenze piromani trovano soddisfazione in una casa di legno. Viene arrestata e portata in manicomio. Segue un’ora e venti densissima, che non risparmia nulla. Alla domanda “è un film che ha rivoluzionato il suo genere?” rispondiamo di no. Cos’ha di nuovo questo film? Assolutamente niente. È un horror / thriller psicologico che riesuma quasi tutti i temi del filone, un’opera come tante diretta in modo extra-ordinario da un maestro. La location è un manicomio-fortezza che dà quel tocco di goticheggiante alla Shutter Island, film con il quale The Ward condivide più di un aspetto. La percezione paranormale, e tangibile, di un castigo come forma di espiazione che pervade il film e gli conferisce un senso di soffocante fatalità è, in primis, cara alla cinematografia orientale. Anche la follia e la compenetrazione di reale e immaginario non sono nuove al cinema. La tortura ce l’ha insegnata già Bava nel lontano 1960 quando girò un capolavoro come La maschera del demonio. E non dimentichiamo il finale a sorpresa, anche questo già visto, che è ovviamente di rito.

Ciò che fa la differenza è, come si diceva, Carpenter. Dirige le attrici in maniera impeccabile, delineando un quadretto composito, e delizioso, di donne che reggono tutta la durata del film con impeccabile professionalità. Il regista trova il coraggio di osare anche nella sezione “macelleria”, non cadendo nel compiacimento alla Dario Argento ma aumentando di netto la tensione, e insistendo torbidamente su un corpo dilaniato dall’interno da un elettroshock usato non come strumento terapeutico ma come arma di morte. Ma soprattutto, Carpenter continua ad usare il metodo “vecchia scuola” del campo – controcampo – campo – sussulto così efficacemente da zittire ogni accusa di ripetitività e banalità.

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