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Furbizia e burlesque

Furbizia e burlesque

Vincitore del premio per la miglior regia a Cannes, accolto generalmente molto bene in patria e, con qualche distinguo, anche da noi, Tournée è un film di cui si percepisce più la furbizia che la reale qualità. Sufficientemente destrutturato per apparire un’opera “d’autore”, la pellicola di Amalric è imperniata su un fenomeno oggi assai di moda come il burlesque. E si sviluppa intorno ai numeri di questo genere di spettacolo, e alla sua “ideologia” (l’incontro tra ironia e sensualità, la proposta di un modello fisico di donna non inarrivabile e di un modello di rapporto in cui la donna gioca da pari con l’uomo), esplicitamente affermata dalle stesse ballerine, dentro e fuori la scena, oltreché da alcune inquadrature didascaliche: quando la macchina da presa ci mostra per la prima volta il pubblico, scopriamo che è formato in netta prevalenza da donne, ad evidenziare il potenziale “emancipativo” attribuito a questi spettacoli.

Ma se si tratta di un film girato con indubbia abilità, con un ritmo scorrevole e con qualche numero di burlesque spiritoso (in particolare ricordiamo quello della “mano morta” e quello del pallone), ad emergere è soprattutto la debolezza della costruzione narrativa e della definizione dei personaggi. Le ragazze, tanto per cominciare, non hanno alcuno spessore psicologico: definite in modo assai vago, costituiscono un gruppo indistinto. Anche fuori dalla scena non fanno che ripetere le “parole d’ordine” sopra ricordate. L’impresario è una figura più articolata, ma anche nel suo caso non si va al di là di tratti caratteriali superficiali e generici. Il film, in buona sostanza, si esaurisce in una malinconia di maniera e in qualche scena sopra le righe (in particolare lo scontro con l’impresario più anziano, che caccia il protagonista in malo modo, oppure la buffonesca scena – che suscita ilarità in sala – in cui la cassiera del supermarket, conquistata dallo spettacolo, vuole spogliarsi davanti a tutti). Alcune di queste scene sembrano dare l’abbrivo a sviluppi narrativi più solidi (il dialogo con la ragazza al distributore di benzina sembra preludere a una storia d’amore notturna tra personaggi in fuga dal proprio passato, il conflitto con l’impresario più anziano sembra aprire la porta a uno scontro con una figura paterna – “voleva essere me!”), ma rimangono sostanzialmente rimandi ad altrettanti film che non ci sono e che, se vorrà, sarà lo spettatore a dover sviluppare nella propria mente, attingendo al repertorio cinematografico a cui esse rinviano. Così come sta allo spettatore immaginare cosa ci sia realmente stato tra l’impresario e la ballerina (dallo scambio di battute nel corridoio intuiamo che qualcosa vi sia stato…).

Senza un “prima” e un “dopo” che dia ad esse sostanza, queste scene rimangono improvvise irruzioni di fiction (dramma, farsa o love story che sia), esagerate e fuori contesto, in una descrizione destrutturata e pseudo-documentaria della realtà. Amalric butta lì frammenti di storie, senza però svilupparli, non si sa se per sciatteria o per esplicita volontà. E prova a strutturare questa materia un po’ informe con la ripetizione di qualche leitmotiv, come quello della musica negli alberghi e dell’impossibilità di spegnerla, o almeno abbassare il volume (leitmotiv che sembra alludere alla (im)possibilità di assumere il controllo della propria vita e scegliere cosa fare della propria vita senza sottostare alle decisioni prese da grandi organizzazioni impersonali) o come quello dei contrasti e delle imprevedibili intersezioni tra “vita” e “palcoscenico”.

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