Bif&st 2011
Diario, giorno 7
Ormai siamo arrivati al penultimo giorno di festival e termina la mia full immersion nel mondo dei documentari con la visione delle opere di Giovanni Piperno e Gaetano Di Vaio. Dà inizio alla giornata Il pezzo mancante, una ricostruzione molto avvincente della famiglia Agnelli, che nel film Piperno presenta come l’ultima, grande dinastia nobile italiana, di quella nobiltà che, tra fine ‘800 e inizi del ‘900, aveva utilizzato i propri capitali per vestire i panni dell’imprenditore. Non è però la fabbrica ciò che interessa al regista romano; infatti, se escludiamo le inquadrature agli edifici storici della Fiat, a quest’ultima non viene mai dedicato molto spazio, perché ciò che interessa a Piperno non è solo ricostruire l’albero genealogico della famiglia Agnelli, ma anche soffermarsi su quelli che erano i rami secchi di questa dinastia, rami bruciati dal destino in modo tragico. Mi riferisco ad Edoardo Agnelli e suo fratello Giorgio, il figlio dimenticato dell’Avvocato, rinchiuso in una clinica svizzera a causa della sua malattia mentale. Quello che mi impressionò entrando le prime volte in casa Agnelli era la mancanza d’arte. Neppure un quadro, erano dei primitivi simpatici, stravaganti, ma poco coltivati. L’unico che aveva una cultura innata era Giorgio. Lui era troppo consapevole di tutte le cose, loro erano consapevoli solo di essere Agnelli: così parla Marta Vio, poetessa e pittrice nonché compagna di Giorgio Agnelli. Il fascino del documentario di Piperno sta proprio in questo, nell’aver ricostruito per sommi capi la storia familiare di una famiglia potente, così fiera del suo status e del suo ruolo da ghettizzare tutti gli elementi che, con la loro “eccentricità”, con la loro “stravaganza” non permettevano di fare blocco unico, sistema. Edoardo, studioso di filosofia e di cultura mediorientale, bohemien malinconico che pare uscito da una poesia di Baudelaire, e suo fratello Giorgio, l’uomo di cultura, il pazzo da rinchiudere perché dotato di una vista più acuta di altri, diventano i personaggi di una tragedia dai toni quasi shakespeariani, anche loro dei fuori posto, come il pinguino su una spiaggia acquistato da loro padre e chiuso nei giardini del palazzo.
Con il documentario di Gaetano di Vaio, Il loro Natale, passiamo dalle case degli Agnelli agli appartamenti delle donne di Napoli, di quelle madri e sorelle con mariti, figli, fratelli rinchiusi in carcere per reati come lo spaccio di droga. Non sono donne di camorra, come precisa il regista durante la conferenza stampa, bensì compagne di vita di uomini e donne che hanno sbagliato, magari più volte, e che queste donne con coraggio e tanta dignità hanno deciso di non abbandonare. Sempre durante la conferenza stampa, il regista fa un’affermazione che reputo bellissima, ovvero che prima di girate il film ha cercato di instaurare con le sue “protagoniste” un rapporto di confidenza e di rispetto. Tali parole mi hanno ricordato quelle di un grande fotografo contemporaneo, purtroppo scomparso pochi mesi fa, Angelo Saponara, che molte volte aveva ritratto nelle sue fotografie gli umili della sua terra. Saponara era solito affermare che prima di scattare una foto fosse fondamentale che si instaurasse un dialogo tra l’autore e il soggetto fotografato, perché senza questa forma di rispetto l’intensità del soggetto fotografato non si sarebbe trasferita nell’opera finale. Trovo che queste parole si adattino perfettamente al documentario di Di Vaio: queste donne gli parlano, mettono a nudo le loro difficoltà e le loro speranze, i loro dispiaceri, come se li confessassero anche a noi spettatori. Non vi è assoluzione né condanna, sebbene sia facile intuire come la mal gestione del sistema carcerario porti, in certi territori, ulteriore manovalanza alla camorra, perché nella giustizia non si vede più un alleato ma un mostro, un’entità fredda, lontana, a sua volta ingiusta.
Particolarmente “calda” è la conferenza stampa di questo venerdì, con Paolo De Falco, autore del documentario Via Appia, che afferma di aver girato un’opera che parla della Puglia pur disprezzando questa regione. Non posso fare a meno di essere d’accordo con Piperno, quando gli chiede come faccia a fare un documentario su qualcosa che si disprezza. Vi è poi l’intervento del produttore di Cinecittà Luce, che osserva giustamente come il documentario italiano, pur avendo dato negli ultimi anni grandi risultati, confermati dai festival in giro per il mondo, non riesca ad essere ancora ben distribuito. Ma si sa che non si potrà mai dir troppo male del sistema della distribuzione del nostro paese. Sempre durante la conferenza stampa vengono comunicati da Erfan Rashid e Maite Carpio i nomi dei vincitori per le categorie documentari e opere prime: si tratta di È stato morto un ragazzo, di Filippo Vendemmiati, e 20 sigarette di Aureliano Amadei. Entrambi vengono premiati al Petruzzelli, assieme ai fratelli Taviani, ai quali viene conferito il premio Fellini 8½.
Nel pomeriggio è proiettata al pubblico l’ultima opera prima, Into Paradiso di Paola Randi, una divertente commedia su di un maturo ricercatore universitario che, dopo esser stato licenziato, si affida per trovar lavoro, ad un politico pronto a sacrificarlo alla malavita pur di ottenere voti. Una serie di vicende porteranno i due a trovare rifugio presso l’abitazione di Gayan, un campione di criket srilankese. La storia è davvero spassosa, in sala gli spettatori ridono di gusto, Gianfelice Imparato (il ricercatore), Peppe Servillo (il politico) e Saman Antony (il giocatore di criket) sono un trio comico assolutamente riuscito: Paola Randi ci regala una commedia spensierata e deliziosa, dimostrando che non servono volgarità e sculettanti lati B per far ridere.
Le ultime anteprime internazionali al Petruzzelli sono, invece, The Noble Prize Winner di Timo Veltkamp, e Die Schwester (La sorella) di Margarethe von Trotta. Mi colpisce, in particolare, la trama del primo film: Joachim è uno scrittore di grande talento ma decisamente squattrinato (oltre che sfortunato); Fabian è uno scrittore di successo ma bloccato nel suo estro creativo. Le vite di questi due autori si incontreranno a causa della paura del primo e della spregiudicatezza dell’editore di quest’ultimo, che convince il suo scrittore di punta a far passare come suo un manoscritto di Joachim, nel frattempo datosi per morto. Una storia interessantissima, che offre non pochi colpi di scena e rende lo spettatore attentissimo e partecipe alle vicende di questo sfortunato scrittore. Ma si tratta anche di un film che solleva una serie di profonde riflessioni su concetti fondamentali all’interno della storiografia artistica: quello di genio, quello di opera d’arte e quello, più che mai attuale, di spregiudicatezza del mercato nel creare artisti, siano questi scrittori o altro.
A cura di Saba Ercole
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