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cultura dell'immagine e della parola

Bif&st 2011
Diario, giorni 5 e 6

Claudia Cardinale premiata a BariGiunti a metà di questa seconda edizione del Bif&st posso affermare, salvo imprevisti finali, che le opere migliori si stanno dimostrando in assoluto quelle selezionate nella categoria opere prime e in quella dei documentari. Proprio giovedì mattina ne vengono proiettati tre di notevole pregio, incentrati su storie belle e spietate.

Il primo, A Mão e A Luva di Roberto Orazi, più che un documentario sembra una favola, perché tale è la straordinaria vicenda di KCal, abitante di una favela brasiliana, amante della poesia e della musica. Questo ragazzo appassionato di libri, che compra usati per pochi soldi, riesce a costruirsi una piccola biblioteca e la mette a disposizione degli abitanti del suo quartiere, che altrimenti non potrebbero permetterseli. Ben presto nella favela KCal diventa un punto di riferimento, soprattutto per i bambini, a cui insegna a leggere e che introduce all’amore per la musica e la poesia. A questo trafficante di libri era stato proposto di cambiar sede, ma come un vero e proprio eroe romantico, rimane in quell’inferno, che per lui è l’unico paradiso possibile, pronto a sbattere in faccia la poesia a chi la ignora, per povertà o per volontà.
Dalla “favola” brasiliana passiamo, con I giorni buoni a Napoli, per la precisione a Scisciano, dove Andrea Barzini si reca per intervistare gli operatori della comunità Jonathan, che da anni si occupa di ospitare ed educare i “ragazzi interrotti” della periferia napoletana. Ragazzi che spacciano a quattordici anni, che devono esser presi di peso e condotti a scuola da una preside tenace, che uccidono per noia e per celia, per avere soldi senza lavorare. Il regista lascia che gli operatori parlino, lascia che i ragazzi parlino, e dalle loro voci si leva forte la necessità di un punto di riferimento, di una autorità, che sia la famiglia, la scuola, le istituzioni. Laddove tale autorità manca, il rischio è scomparire in una non identità; laddove tale autorità manca, è la malavita a fornirne una. Andrea Barzini racconta la dura battaglia che ogni giorno queste persone devono sostenere per far riscoprire ai ragazzi il concetto di rispetto. Degli altri e, quindi, di se stessi. Una educazione al rispetto che precede quella alla legalità, quella al lavoro. Il documentario di Barzini testimonia anche un esperimento interessante effettuato dalla comunità Jonathan con la Indesit, esperimento atto ad introdurre i ragazzi al concetto di lavoro ed è bello pensare che qui i essi possano apprendere ciò che ogni fabbrica dovrebbe insegnare: la dignità.
Proprio quello di dignità è il filo rosso che unisce i documentari proiettati nella mattinata di giovedì, tra i quali spicca Il sangue verde di Andrea Segre. Siamo sempre in Italia, questa volta in Calabria, a Rosarno. Il regista lascia parlare alcuni degli immigrati che hanno lavorato su quelle terre, riprende le fabbriche gravide di ruggine dove hanno abitato, i campi sterminati su cui si sono spezzati la schiena e continuano a spezzarsela. Perché molti, dopo i giorni della rabbia, dopo esser stati mandati via, sono tornati. Vi è una dignità nelle parole, nell’atteggiamento di questi uomini che la nostra classe dirigente non ha e non ha mai avuto; uomini che rivendicano per loro stessi il medesimo colore del nostro sangue, rosso e non verde, come la terra che devono coltivare. Alle loro storie di sfruttamento, di duro lavoro nei campi, di caporalato, Segre unisce vecchi filmati in bianco e nero in cui compaiono uomini e donne calabresi intenti a lavorare, anch’essi sfruttati, anch’essi schiacciati nella loro dignità. Il sangue verde è un documentario che muove la nostra rabbia e la nostra commozione, un’opera che fa venir voglia di gridare di fronte all’ingiustizia e all’ignoranza riguardo il nostro passato, quando a dormire per terra eravamo noi.
Rispetto a questi tre documentari, mi convince molto meno I cani abbaiano di Michele Pennetta, breve film sul terremoto in Abruzzo. Due uomini abitano brandelli di città fantasma: vivono in macchina, si lavano all’aperto. Il silenzio è totale, interrotto solo da qualche parola biascicata, qualche risata scomposta e l’abbaiare dei cani. Minimalista, scarnificato, vi è qualcosa nell’opera di Pennetta che ricorda un certo tipo di teatro contemporaneo. Dice poco per significare tanto ma, a conti fatti, è meno incisivo di quel che vorrebbe essere.

Le giornate di mercoledì e giovedì offrono la visione anche di due interessantissime opere prime. Mercoledì vien proiettato Hai paura del buio di Massimo Coppola, storia di due vite parallele, ma non come le abbiamo intese riferendoci a Due vite per caso di Aronadio. Se in quest’ultimo caso è un unico individuo a sdoppiarsi in due diversi tipi di esistenza, nel film di Coppola l’esistenza è una sola, condivisa da due individui, due ragazze, Anna ed Eva: la prima è operaia presso la Fiat di Melfi, la seconda è giunta in Italia apparentemente per cercare lavoro. Entrambe si trovano a vivere sotto lo stesso tetto e questa casa striminzita diventa simbolo delle loro vite troppo strette, dove più che il lavoro è l’amore, il senso delle cose, ad essere ricercato. Giovedì è invece la volta di quello che ritengo essere il film più bello visto sin’ora tra le opere prime: Et in Terra Pax di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini. Una storia dura, ambientata al Corviale, quartiere della periferia romana ma che, in realtà, potrebbe essere la periferia di qualsiasi altra grande città. Qui si intrecciano le storie di diversi personaggi, ragazzi di vita o ex ragazzi di vita di pasoliniana memoria. Lungo tutta la visione del film non posso fare a meno di pensare ai romanzi Ragazzi di vita e Una vita violenta: stessa ambientazione nelle borgate, stesso degrado, stessa violenza, stesso nulla. Eppure nel film di Botrugno e Coluccini vi è una nota di pessimismo che mancava nei romanzi di Pasolini: vi è una totale mancanza di humanitas, di quella humanitas che lo scrittore bolognese vedeva anche nel cuore dei più miserabili. L’unico in cui sembrava potesse conservarsi è Marco, un ex spacciatore da poco rimesso in libertà. Ma in quello che forse è il più pasoliniano dei personaggi del film, l’humanitas coincide con un gesto estremo, l’omicidio, e quindi si annulla automaticamente, così come al nulla conduce il suo debole desiderio di cambiar vita. Violento e di una bellezza brutale e crudele, Et in Terra Pax è davvero una delle perle di questo Bif&st.

Continuano le assegnazioni del premio Fellini 8½: mercoledì tocca a Claudia Cardinale, mentre a Gennaro Nunziante e Luca Medici viene consegnato il premio Numero 1. Giovedì è il turno di Liliana Cavani a salire sul palco del Petruzzelli per la premiazione, a cui si aggiunge l’assegnazione del premio Michelangelo Antonioni a Germano Maccioni per il cortometraggio Cose naturali. Al di là dei premi, le giornate di mercoledì e giovedì sono a mio parere significative soprattutto per le anteprime internazionali proiettate: Win/Win di Jaap van Heusden e Senna di Asif Kapadia. Il primo, pur essendo stato definito dai critici olandesi un film sulla crisi economica, è in realtà la storia di un giovane operatore finanziario di talento. La sua ascesa presso la banca per cui lavora coincide con la presa progressiva di distanza dal suo dono, ovvero quello di non perdere mai, dono che finisce per assumere le sembianze di una maledizione, una condanna da cui liberarsi. Senna è invece un film sulla vita del grande pilota di formula 1, interamente costruito attraverso l’ausilio di immagini girate dalla TV o appartenenti alla famiglia del pilota. Malgrado l’utilizzo di tali materiali, l’opera di Asif Kapadia è lontana dall’appartenere al genere del documentario: si tratta in verità della storia, anzi, della favola (la terza di questo giovedì) di un uomo tenace, che è riuscito a realizzare i suoi sogni con costanza e grande umiltà d’animo, il cui filo della vita si è reciso troppo presto. Ma come diceva il poeta greco Menandro, muor giovane chi è caro agli dèi.

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