Bif&st 2011
Diario, giorno 3
La mattinata è iniziata anche oggi al teatro Kursaal, con una lezione di cinema. Dopo gli interventi di Domenico Procacci e Giuseppe Tornatore, è la volta di Carlo Verdone, sicuramente tra gli ospiti più attesi di questa seconda edizione del Bif&st, a cui domenica 23 è stata dedicata una intera giornata di programmazione. Numerose sono le domande che gli sono state poste, ma tra tutte le risposte del regista e attore romano mi è piaciuta particolarmente quella data ad un ragazzo, che ha chiesto consigli per un aspirante attore. Domanda canonica, per carità, ma la risposta di Verdone, pur nella sua disarmante semplicità, merita di essere riportata. Contro un format quale quello della TV, dove ad essere esaltato è il non sapere e il non saper fare, il regista esalta, per coloro che vogliono intraprendere il mestiere di attore, due componenti fondamentali: quello della formazione, che parte soprattutto dalla storia del cinema, e quello del rigore. Un rigore che deve essere intellettuale e professionale e che molti presunti professionisti dello spettacolo oggi hanno dimenticato. Un’altra risposta sulla quale vorrei soffermarmi è quella data alla domanda di un critico, che chiedeva quale fosse l’origine dell’ispirazione di Verdone. A tale domanda, in verità ben poco originale, il regista risponde con la vita vera. È dall’attesa presso la farmacista o nella puntata al tabaccaio con nostalgie mussoliniane che il regista-attore trae la fonte della sua ispirazione. I neorealisti avrebbero detto dalla strada, ma non si tratta di neorealismo, bensì di trarre dal reale anche quegli elementi di surrealtà, che sono ben diversi dal mondo riprodotto nei film di alcuni registi, che con il reale non vogliono “sporcarsi le mani”. Proprio a Carlo Verdone, in serata, è stato conferito il premio Fellini 8 ½ per le sue opere, fatte di personaggi indimenticabili: figli, talora, della cattiva coscienza del nostro paese, ma più spesso eroi di una normalità rappresentata in maniera divertente e malinconica; per averci fatto divertire con i suoi film e, al tempo stesso, per averci fatto riflettere sulla necessità di diventare migliori. È indubbio che tali siano molti personaggi di Verdone anche se ultimamente il suo cinema ha preso una svolta decisamente buonista e difficilmente si potrebbero definire i caratteri interpretati dall’ultimo Verdone “indimenticabili”.
L’opera prima in concorso oggi è Due vite per caso, di Alessandro Aronadio, già presentata con successo al Festival di Berlino del 2010. Un film, per usare le parole del regista, sulla quarta dimensione, quella del limbo dell’attesa, in cui sono imprigionati, impantanati molti ragazzi e ragazze di oggi. In questo tempo che si allunga come una molla, sempre sul punto di cedere alla tensione, vediamo la vita del protagonista, Matteo, prendere due diverse direzioni, tra loro parallele, che si incontreranno in un infinito finito, in quanto coincide con la morte. In entrambe le diverse esistenze, l’attesa non è che l’alimento per la rabbia, una coperta sotto cui riposa un impeto di distruzione, di nullificazione grande come un abisso. Quella di oggi è una generazione di ragazzi arrabbiati ma, a differenza della rabbia dei loro padri, costruttiva perché volta a distruggere il vecchio per edificare il nuovo, la rabbia della meglio gioventù contemporanea è solo distruzione, perché il domani è diventato uno spazio utopico.
La serata al Petruzzelli è consacrata due anteprime: Kolorado Kid del regista ungherese Adrás B. Vágvölgyi, sul processo e la condanna al carcere di Béla Kreuzer, un giocatore d’azzardo che si trova a far parte della lotta dei partigiani ungheresi contro l’occupazione sovietica; e La rafle, diretto da Roselyne Bosch. Se il primo film non brilla né per l’interpretazione degli attori né tanto meno per la storia (risultando eccessivamente lungo e decisamente soporifero), il film della Bosch, sull’arresto e la deportazione degli ebrei dei territori collaborazionisti durante il secondo conflitto mondiale, è invece un film che oltre a permetterci di godere della bella interpretazione di Jean Reno e dei piccoli attori, ci regala, a ridosso della giornata della memoria, una storia coraggiosa per il punto di vista da cui parte. La regista francese, infatti, si sofferma particolarmente sulle colpe dei suoi connazionali che, pur sapendo, permisero che uomini donne e bambini fossero strappati alle loro case e condotti ai campi di sterminio, spesso con un collaborazionismo che andava oltre la necessità di obbedire agli ordini e sfiorava decisamente la compiacenza. I personaggi più odiosi del film della Bosch non sono i tedeschi, bensì proprio i francesi: la commerciante che esulta durante le retate; i miliziani che strappano gli ebrei alle loro abitazioni; le forze politiche che pianificano questa deportazione, un vero e proprio tributo da offrire a un drago assetato di sangue. Uscendo dal cinema, non ho potuto fare a meno di sentire il commento di uno spettatore, che affermava di odiare i tedeschi più di qualsiasi altro popolo al mondo a causa di ciò che avevano compiuto. In verità, avrei voluto far notare a questo ignoto collega che nel film non erano i tedeschi a picchiare le donne, non erano da soli nello stipare uomini indifesi in vagoni bestiame. È troppo facile dare semplicemente la colpa agli altri ed è questo il vero, potente messaggio del film La rafle, che ci costringe a guardare la Storia sotto tutti i punti di vista e a smettere di crogiolarci nel crederci brava gente che non ha niente di cui vergognarsi.
A cura di Saba Ercole
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