Torino Film Festival
Diario 2010, Giorno 2
Di Brad Anderson ricordo con piacere quel piccolo gioiello analitico e disturbante che è Session 9. Uno dei pochi horror che, ricordo, fu davvero capace di inquietarmi e di togliermi, come si suol dire, “il sonno” (tanto per parafrasare un titolo di un altro suo film). Al TFF oggi ha presentato per la sezione Rapporto Confidenziale il suo ultimo lavoro per il cinema (dopo la parentesi televisiva di Fringe): Vanishing on 7th Street, opera atipica, in piena linea con lo stile narrativo del regista statunitense, sempre bravo a discostarsi quanto basta dai flussi modaioli del momento: anche per quanto riguarda lo strabusato genere apocalittico, che Anderson, in questo film, ripercorre a modo suo. L’esplosione dell’”epidemia assassina” in Vanishing on 7th Street non è infatti scaturita da morsi o schizzi di sangue: ma solo da un grande e misterioso blackout globale e globalizzante, un vero e proprio buco nero che inghiotte le vite nella propria oscurità. I paesaggi desolati e desertici delle metropoli (che possono apparire un eco di film come 28 giorni dopo) in realtà sono svuotati da quella mostruosità apocalittica che spesso si concretizza nei film sulla-fine-del-mondo nella zombizzazione dell’uomo civilizzato (inutile qui citare la carrellata infinita di esempi cinematografici o seriali). Il male oscuro di Vanishing on 7th Street invece svuota i corpi, li smaterializza, li imprigiona in ombre sibilanti e quanto mai voraci di sdraricare altre anime dai propri corpi. Più che dell’immaginario romeriano, il film di Anderson sembra quindi essere debitore di una certa metafisica che ricorda alcuni romanzi di Stephen King, generando una narrazione che gioca sul contrastro mitologico della luce contro l’oscurità e le sue ombre. Eppure, dietro la maschera di un banale horror per bambini, Anderson sembra suggerirci abilmente quanto pericoloso sia, per l’esistenza stessa dell’umanità, dimenticarsi di quella paura primordiale ed infantile che è la fobia del buio. E’ qui che Anderson sembra che voglia andare a parare, non disdegnando inserti religiosi (altro ritorno alle origini) e insistendo in maniera complessa sulla quella frase io esisto ripetuta ossessivamente dalle sagome senza materia di Vanishing on 7th Street, quasi a decifrare una nuova natura umana che ha perso ogni cognizione della paura e della sua dimensione più pura e genuina: destinata per questo a smettere di esistere e scomparire lasciando solo i suoi vestiti, rapita in un infernale girone di ombre mangia-anime. La lezione morale del regista però non tarda ad arrivare: un orizzonte nuovo sembra rigenerarsi in un fiabesco finale, con due bambini in fuga sopra un cavallo (come nella più classica dell favole), archetipi embrionali di una nuova umanità. Perchè finchè c’è “luce”, c’è speranza.
Altro attesissimo film era quello di quel geniaccio di Danny Boyle, ormai definitivamente affermatosi come autore cult. Il suo 127 Hours, presentato in anteprima europea, è la rappresentazione all’ennesima potenza del genere emergente più gettonato dell’anno: il claustrophobic thriller. Boyle giostra abilmente sulla (vera) srtoria di Aron Ralson, (interpretato da James Franco) uno spericolato e intraprendente escursionista americano che rimase intrappolato sotto una roccia che aveva ceduto sotto il suo peso, in un canyon isolato nello Utah. Con immagini potentissime, Boyle accentua la dinamicità dello mdp nel prologo avventuroso del protagonista, per poi fissarsi documentaristicamente nella sua semi-immobilità che lo costringerà, per quasi cinque giorni (circa 127 ore, appunto) a lottare per la propria sopravvivenza. A salvare 127 Hours dall’apparire un fim di mera testimonianza sono i flashback e gli inserti onirici che Boyle intervalla alla narrazione nei suoi punti più estremi, ricordando però fin troppo la lezione morale di Into The Wild e problematiche connesse. Certo, per Boyle rimane su tutti la conferma una grande capacità registica, ma quello già lo sapevamo.
Per Festa Mobile infine c’è da segnalare due titoli: uno è Contre Toi, film che ha aperto la cerimonia d’inaugurazione del TFF e che ricalca, in maniera forse un pò obsoleta, il tema della solitudine come istinto materno represso. Anche qua l’ambiente claustrofobico sembra ricoprire un ruolo di prim’ordine, soprattutto nel generare ossessione e amore morboso nei due protagonisti: da una parte una ginecologa dalla scarsa vita sociale e dall’altra un uomo rancoroso che la rapisce per farle pagare la morte accidentale della moglie durante un’operazione chirurgica. Ma è soprattutto nella pretenziosità di alcune scene (che fanno un pò il verso alla Pianista hanekiana) che la regista Doillon sembra proprio non convincere nel suo abbozzo psicologico dei personaggi e della narrazione che ne scaturisce.
Non più entusiasmante è stato l’altro titolo, I due presidenti (The Special Relationship) presentato anch’esso in esclusiva (nelle sale italiane uscirà il 10 dicembre). Commedia politica sul rapporto “tutto speciale” fra Tony Blair e Bill Clinton. Al di là di un film senza pretese se non quello di raccontare alcuni retroscena piuttosto curiosi, è interessante osservare come i due politici ne escono entrambi con le ossa rotte: da una parte un Tony Blair (Michael Sheen) tanto idealista quanto ingenuo, e dall’altra un Bill Clinton (interpretato da Dannis Quaid) quasi macchiettistico, incastrato nelle sue debolezze sessuali e nel caso del Sexygate. I maggiori difetti del vecchio e del nuovo mondo concentrati, forse fin troppo, nelle vite, pubbliche e private, dei due leader politici.
A cura di Daniele Lombardi
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