Il mago fallito e la magia del cinema
Un amico dopo la visione questo film mi ha inviato un sms critico che cito tale e quale: «L’illusionista è un film per palati fini». Non aveva torto. E non si può omettere un dato così sensibile che forse rappresenta il suo unico limite (se così si può dire), e in questa direzione il rischio è che lo vedano in pochi. Il secondo lungometraggio di Sylvain Chomet, il papà di Appuntamento a Belleville, una produzione incredibile in tutti i sensi, è un film che richiede pazienza, un cuore aperto a sentimenti non commerciabili/commerciali e uno sguardo maturo. Non serve essere adulti per possedere uno sguardo maturo, certo. E non è da escludere che anche un bambino possa emozionarsi durante questa visione. Anzi, è molto probabile che un bambino di fronte alle magie create dall’anziano illusionista si diverta, partecipando attivamente al doppio spettacolo. Ma non si può nascondere la complessità dell’operazione, nonostante la semplicità della sua trama. E non si può non considerare il lato più profondo della vicenda, quello più umano, quello in cui lo spettatore si trova a fare i conti con sentimenti ed esperienze talvolta incomunicabili e irrappresentabili anche nella vita reale. Ad ogni modo, bambino o adulto che sia, lo spettatore si trova di fronte a un cartoon magnifico dove, ancora una volta, a prevalere sono le immagini, i disegni, i rumori e i suoni. Non le parole o i dialoghi. Come in un film di Tati, come durante una storia di Mr. Hulot, vero idolo del regista, che coraggiosamente è riuscito a dare vita (in tutti i sensi) ad una vicenda impolverata e tenuta nascosta per quasi mezzo secolo, catalogata presso gli archivi del CNC (il Centre National de la Cinématographie) sotto l’anonimo nome di Film Tati N°4. La vicenda dell’anziano e stanco illusionista, ultimo sopravvissuto di un certo spettacolo di varietà, intrattenitore romantico e precario alle prese con i tempi che cambiano e con l’avvento del rock e delle rockstar s’intreccia amorevolmente con le attese della giovane Alice, giovane affascinata dalle prodezze e dalle novità della magia. Il film racconta con poesia, intelligenza e sensibilità, il doppio strato della realtà, fatto di alterazioni surreali, improvvisazioni magiche, sguardi feriti e sofferenti, risate appassionate.
Certamente Chomet è un regista appassionato che ha voluto portare in scena e mettere di fronte le sue passioni (straordinaria e significativa la sequenza in cui l’anziano illusionista entra in un cinema dove si proietta Mon oncle e si trova a guardare in faccia, separato da uno schermo, se stesso. Mon oncle, Oscar per il miglior film straniero, racconta l’amicizia di un adulto e di un bambino, della loro spontaneità come risposta all’omologazione disumanizzante), senza sottovalutare l’intero contesto socioculturale in cui si svolge la vicenda, dove la vita degli artisti fa i conti quotidianamente con la solitudine, la povertà e i rischi e le fragilità di una vita vissuta sopravvivendo. Come afferma nella sue riflessioni lo stesso Chomet: «Ho letto tutto quello che c’era da leggere e ho scoperto cose che non sapevo, che ho inserito come un tessuto, una trama, nell’adattamento definitivo. Per esempio quando un caro amico di Tati, clown, si era trovato in difficoltà economiche, Tati l’aveva sostenuto. Così ho aggiunto questo personaggio del clown alla bizzarra moltitudine di caratteristi che popolano il film, per dare il mio contributo e rendere ancora più emozionante la storia di sottofondo del film, che è quella della fine di un’epoca – quella del music hall – e dell’inizio di una nuova era – quella del rock‘n’roll. Parallelamente a questo si trova il tema universale della relazione genitore/figlio e di quanto spesso questa sia dolce e amara al tempo stesso. Nell’illusionista c’era tutto quello che amo di Tati e tutta la sua sensibilità per le umane debolezze, ma mai avrei pensato di sentirmi così vicino a lui nel mettere in scena una sua sceneggiatura. Adesso mi sembra una cosa così naturale… Tutto quello che ho dovuto fare è stato aggiungere la mia personale visione poetica alla sua e, in cuor mio, sapevo che la combinazione avrebbe potuto funzionare».
Lo stile del film è caratterizzato dal 2D (Chomet, come anche in Belleville, ha come riferimento artistico alcuni film della Disney degli anni Sessanta come La carica dei 101 o Gli aristogatti) che permette, ai creatori e allo spettatore, di avvicinarsi sempre di più all’umanità dei personaggi, al realismo della vicenda: «Il mio insistere sul disegno a mano in 2D viene dalla convinzione che questa tecnica dia un fascino eterno all’arte, garantendo alla storia il piacere di essere guardata in ogni momento, anche in quelli in cui c’è poca azione. La forza del 2D risiede, secondo me, nel fatto che vibra, cambia, non è mai uguale né perfetta, esattamente come la realtà. Le imperfezioni sono importanti quando ti stai misurando con una storia che racconta di esseri umani. Aggiungono verità al realismo e lo rendono più potente. E il 2D è tutto lavoro fatto da esseri umani. La computer grafica è giusta per i robot e per i giocattoli più che per gli esseri umani. Io voglio vedere il lavoro di un artista sullo schermo non quello di una macchina le cui visioni sono ordinate, brillanti, nitide. Preferisco immaginarmi con la mia matita che con un computer. Si perde qualcosa di indefinibile lavorando col computer. Quando disegno, nascono delle immagini esteticamente piacevoli con un potere magico ed un potere visivo». Ecco perché L’illusionista è un film che ipnotizza. Rivolto a chi vuole sognare con la magia del cinema. Anche se alla fine ci viene detto che la magia non esiste. Senza il cinema, di sicuro.
Curiosità
L’illusionista era stato scritto da Tati tra il 1956 e il 1959. Ha dichiarato Chomet: «La storia era tutta incentrata sull’irrevocabile passare del tempo e, leggendola, capii perché non ne avesse mai fatto un film: era troppo vicina a lui, trattava argomenti che conosceva fin troppo bene, aveva preferito continuare a nascondersi dietro alla maschera di Monsieur Hulot. Si capiva fin dall’inizio che non si trattava di un’altra disavventura di Hulot. Tutte quelle riflessioni, così apertamente sentimentali, me lo resero immediatamente chiaro. Se avesse fatto il film – e sono sicuro che avesse già in mente ogni singola prospettiva e inquadratura – avrebbe portato la sua carriera su un binario completamente nuovo. Pare abbia detto che L’illusionista fosse per lui un soggetto troppo serio, al suo posto scelse di fare Playtime».
A cura di Matteo Mazza
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