All’improvviso uno sconosciuto
Ha dichiarato James Ivory: “Una delle cose che più mi attraeva del romanzo di Peter Cameron era la leggerezza, la possibilità di raccontare dei personaggi infelici che in qualche modo riescono alla fine del loro viaggio a trovare una loro felicità personale nell’idea della coppia”. Quella sera dorata, primo film realizzato dal regista americano senza il compagno Ismail Merchant (deceduto nel 2005), ventiquattresimo del sodalizio con la sceneggiatrice Ruth Prawer Jhabvala e tratto dal bestseller di Peter Cameron, pubblicato in Italia da Adelphi, che in originale scandisce il titolo The City of Your Final Destination, è il racconto del cambiamento di uno stato d’animo, la descrizione di una maturazione artistica, la trasformazione di un sistema sentimentale infelice in una felicità diffusa. Ambientato in Uruguay (ricreata però in Argentina) il film rielabora i temi fondamentali del cinema di Ivory: c’è una famiglia costituita da due uomini, il fratello Adam (Hopkins) e il compagno Pete (Sanada) e tre donne, Caroline (Linney), la vedova di James Gund, Arden (Gainsbourg), la giovane amante dalla quale Gund ha avuto una figlia, che conservano segreti e bugie; c’è un personaggio, il professore di letteratura Omar Razaghi (Metwally), che s’inserisce come corpo estraneo nella vicenda e da straniero scardina, rompe, infrange i confini della famiglia Gund, un tempo straniera, a sua volta schiacciata dalla portata del passato; c’è, appunto, un viaggio nel passato vissuto sia dallo spettatore, sia dai personaggi, alla scoperta della memoria perduta, dei sentimenti nascosti, delle emozioni superate; ci sono quei riferimenti “eleganti” – varie citazioni musicali (Lehár), pittoriche (Beato Angelico) e letterarie (Cechov) – che potrebbero essere intesi come snob, gratuiti e di maniera, ma che forse, invece, vanno guardati nella direzione che più interessa ad Ivory: raccontare l’identità della famiglia Gund, espressione della cultura europea; c’è un forte riferimento autobiografico poiché Ivory con Quella sera dorata sembra rielaborare una parte significativa della sua carriera (“Io stesso ho vissuto una situazione analoga quando abbiamo cercato di fare un film su Pablo Picasso. La famiglia del pittore ha rifiutato di collaborare e non ci ha dato l’autorizzazione a utilizzare le sue opere”), legata certamente alla relazione sentimentale con Merchant, ma anche destinata a riconsiderare il suo legame con l’Italia, qui rappresentato dall’oggetto-gondola, come dichiara lui stesso: “Ho girato il primo film proprio in Italia, a Venezia. Ero un ammiratore di tutto quello che riguarda il vostro paese. Mi piaceva l’idea della gondola, che ha un valore simbolico nella storia, per coloro cioè che hanno deciso di portarla fino in America latina. C’è comunque un lungo rapporto che mi lega all’Italia, alla quale associo molti sentimenti positivi”.
Il film seduce raccontando tutto questo con passione e leggerezza, senza asfissiare nonostante le atmosfere e la vicenda, in qualche modo, siano asfissianti. Il ritmo della narrazione è sempre alto, lo stile è insolito e coinvolgente quando muove le pedine del puzzle dei misteri come anime perdute alla ricerca della verità, il racconto ha una soluzione inaspettata. Sembra che il film voglia estrapolare da tutti questi personaggi il desiderio di diventare altro, di raggiungere una nuova condizione esistenziale. Si spiega così l’intenzione di Ivory a rappresentare con enfasi la tensione iniziale (scandita dalla musica, ma soprattutto dai rumori della natura: un tuono, le api, le mucche) che si tradurrà in una nuova stasi emotiva: tutti i personaggi della vicenda raggiungono un equilibrio imprevedibile, visto che si tratta di un film sugli squilibri è imprevedibile, e lo fanno attraverso la liberazione definitiva dai dubbi e dal fantasma di James Gund, che ha riunito tutti per poi farli separare. Quella sera dorata, anche se rischia di essere inteso come film di maniera, insiste molto sulla profondità delle relazioni e riesce a trasmettere questo aspetto attraverso, esclusivamente, la potenza della finzione e dell’immagine. I dialoghi e le parole lasciano spazio alla forza del montaggio interno delle inquadrature e al corpo degli attori che tra una finestra, una cornice, una porta, uno specchio, o si comunicano o si rivedono riflessi, ricreati, riprodotti.
Ivory, quindi, sottende un filo diretto tra realtà e finzione, mescola le ansie dei suoi personaggi all’evolversi degli eventi, insegue una riflessione sulle possibilità dell’artista e la sovrappone alla riproduzione dell’immagine e dell’arte. I numerosi indizi del rapporto tra artista e copia (il libro che deve scrivere Omar, quello già scritto da James e quello segreto che Caroline nasconde; il filmino in bianco e nero girato a Venezia; le tante statue sparse per la casa insieme ai quadri) si manifestano per sottolineare definitivamente il ruolo dell’essere umano nei confronti del passato e del vissuto, ponendo, alla fine, una domanda fondamentale: chi è il protagonista della mia vita?
Curiosità
A proposito di Anthony Hopkins, Ivory ha dichiarato: «Stavolta, dopo averlo visto interpretare tanti mostri e assassini, ho voluto farlo tornare alla sua dimensione originaria, quella del teatro e della recitazione corale, dandogli la possibilità di recitare come se fosse in palcoscenico. Anche se abbiamo girato molti film assieme, non posso certo considerarlo come un mio alter ego. Lui è un lavoratore infaticabile, cosa che io non sono. Lui è inglese, io americano. Lui è una grande star e io non lo sono. L’unica cosa che direi che abbiamo in comune è che abbiamo entrambi l’hobby della pittura». Pubblicato in Italia da Adelphi nel 2006, Quella sera dorata di Peter Cameron è stato un vero caso editoriale, con 80.000 copie vendute e 13 edizioni, oltre all’accoglienza entusiastica della critica. La scelta per il titolo italiano, in accordo con l’autore, è stata quella di riportare in copertina il verso di Santarèm di Elizabeth Bishop, che nel testo introduce la seconda parte.
A cura di Matteo Mazza
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