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cultura dell'immagine e della parola

Aspetta e spera
Venezia, 10 settembre

Ridateci i soldi: il muro di messaggi creato da Gianni IppolitiDue film impegnativi, problematici, discutibili come Drei di Tom Tykwer e Barney’s Version di Richard J. Lewis hanno concluso il Concorso ufficiale di Venezia 67, confermando le impressioni dei giorni scorsi: quella di quest’anno, nei contenuti, si è dimostrata una selezione ricca, potente e robusta. Formalmente, sul piano della ricerca artistica, invece, è stata decisamente più povera delle scorse edizioni. Drei e Barney’s Version (come i film di Costanzo e Hellman) sono quelle significative eccezioni che spingono lo spettatore a riflettere tanto alla vicenda, quanto al racconto. Ma il risultato finale lascia perplessi.

Tykwer, regista di Lola corre e del recente The International, realizza un film con spunti interessanti dal punto di vista cinematografico ma non determina la giusta direzione emotiva dello spettatore. Drei è un filmiscuglio che affronta, in ordine sparso, un discorso su confine vita e morte, eutanasia, clonazione, aborto, omosessualità, sterilità, fecondazione assistita, menage a trois, rapporto tra scienza e cultura, dimostrandosi ibrido nella forma, nel contenuto e nelle intenzioni. L’impressione è che lo stesso Tykwer non voglia perdersi nelle corsie filosofiche dell’annientamento delle categorie cosiddette standard (uomo e donna) di cui il film si fa accanito sostenitore. Ma i suoi personaggi vagano in questa ambiguità di fondo e sembrano perdersi in un vuoto emotivo liquido e moderno. Così come il film: vuote, triste, vago e pericoloso.

La trasposizione del romanzo di Mordecal Richler (clamoroso caso letterario in Italia, diventato), firmata Richard Lewis (regista di diversi episodi di CSI) coinvolge certamente di più del film di Tykwer, ma anche in questo caso sembra manchi di un vero equilibrio tra forma e contenuto e forse di quel tocco in più che farebbe lievitare il film. Interpretato da Paul Giamatti (la mia personale Coppa Volpi), Barney racconta le vicende di un ricco, rissoso, irascibile ebreo sciupafemmine innamorato solo della sua terza moglie Miriam. La vicenda indaga pure del suo rapporto col padre (Dustin Hoffman strepitoso), delle strane morti intorno alla sua vita e dei suoi figli. L’alternarsi dei flashback e delle stereotipate forme di genere (commedia, romantic, giallo, tragedia) creano un meccanismo funzionale e convincente anche quando humor e lacrime si sovrappongono. Non si sa se piangere o ridere. O meglio. Lo si fa quando il regista lo impone con l’insistenza della colonna sonora, anche quando non sarebbe necessario. E alla lunga Barney’s Version paga questo atteggiamento così dichiaratamente commovente e amaro.

Esco frastornato da quest’ultima doppietta. Non è la prima volta che mi capita. Soprattutto quest’anno. Faccio un giro allo stand di Ippoliti e incrocio la Coppa “Ridateci i soldi”. Fa sorridere come le cose non cambino mai. Un tipo se la prende con la storia del minutaggio applausi. Ma il bello è superare certe cose. Non si può mica ridurre un film ai minuti di applausi (finti o veri che riceve). Dopo Venezia le urgenze sono altre. Come, ad esempio, sistemare i pensieri.
Sul treno per casa ho conosciuto Hoover, nato a Hong Kong ma residente a New York. Tutto torna. Gli ho chiesto cosa pensa delle code, del cibo e di altre cose.
Grazie a tre persone: un maestro, un’autista e una cuoca.
Chiudo gli occhi su questa Mostra. Aspettando e sperando i vincitori.

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