Intervista a
Jerzy Skolimowski
A Venezia abbiamo incontrato il settantaduenne regista polacco di Essential Killing, film con Vincent Gallo in lizza per il concorso principale della Mostra.
Il suo film è incentrato sulla natura, sulla lotta per la sopravvivenza, sul rapporto tra uomo e natura.
Dopo tanti anni in cui ho abitato in California, a Malibu, ho deciso di tornare a vivere in Polonia. Vivo in mezzo a una foresta in Mansuria. Tutti i giorni vedo animali e ho imparato molto sul rapporto tra uomo e natura. Alcune situazioni del film sono riprese proprio da queste mie osservazioni quotidiane. Alcune riprese del film sono state fatte a 30 km da casa mia.
Il personaggio della donna sordomuta, Ludovice Seigner, sembra l’unica a possedere un senso d’umanità in un film che sembra dominato da un’assenza di umanità. Perché?
Sì, è vero. Volevo chiudere il film con un messaggio di speranza.
Ci può dire qualcosa circa la genesi del film?
Mentre facevo una passeggiata nella foresta, camminavo sul ciglio di una strada, dove ho notato un notevole dislivello, in cui sarebbe stato facile cadere. Così ho immaginato la scena dello sbandamento in macchina e della caduta.
Il film ha creato stupore per il fatto che il protagonista sia un talebano.
Non è provato che sia un terrorista. Non c’è nessun indizio in tal senso. Del resto, io non provo alcun interesse per la politica.
Eppure il film parte da una questione scottante, quella delle basi CIA sparse per il mondo.
Nessuno degli ultimi governi che si sono succeduti in Polonia ha ammesso la presenza di basi CIA sul territorio polacco. Ci sono però indagini in corso commissionate dal Parlamento Europeo, e da associazioni per i diritti umani. La Lituania recentemente ha ammesso l’esistenza di tali basi.
Com’è stato lavorare con Vincent Gallo?
(Ride) Direi che Vincent Gallo ha confermato la sua reputazione… Volevo lavorare con lui anche perché è legato ad associazioni animaliste e sarebbe stato interessante per il suo ruolo. Lui ha accettato con coraggio un ruolo difficile e impegnativo dal punto di vista fisico.
Molti hanno associato il suo volto nel film a quello di Gesù.
Credo che sia buona cosa se un film crea associazioni mentali o di immagini, ma non volevo spingere molto in quella direzione, in realtà. Il mio interesse principale era di tipo cromatico, volevo lavorare sui colori: la neve bianca, gli alberi neri, il sangue rosso. Il punto di partenza riguarda una questione di estetica, del resto io sono anche un pittore.
Si tratta di un film molto diverso da tutti quelli della sua carriera. Oltre al fatto di lavorare in assenza di dialoghi, come aveva già fatto nel precedente, colpisce il debito verso il cinema hollywoodiano, per lei che è stato un regista delle nouvelle vague europee.
Non c’è un motivo particolare. Un artista deve continuamente reinventarsi. Per quanto riguarda gli aspetti in comune con il cinema di entertainment, ho voluto creare un inizio molto forte, decisamente come un action hollywoodiano, per poi procedere rallentando progressivamente il ritmo, arrivando a una dimensione meditativa e filosofica.
E’ un progetto costoso rispetto ai film che è solito realizzare. E’ stato difficile reperire i finanziamenti?
No. Già il Polish Film Institute ha messo a disposizione una buona somma, cui si sono aggiunte quelle degli analoghi istituti irlandese, norvegese e ungherese e il contributo di Eurimages.
A cura di Giampiero Raganelli
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