Hollywood Milano
Dopo la digressione di Marie Antoinette (2006), Sofia Coppola torna alle atmosfere urbane, al cinema dell’alienazione e dello spaesamento di Lost in Translation (2003). La prima sequenza, con la Ferrari, che si scoprirà essere del protagonista, ripresa più volte a fare lo stesso giro, funziona da manifesto ed enunciazione di quello che sarà Somewhere, un film che gira a vuoto, che sembra non portare da nessuna parte. Proprio come nel film che la ha fatto vincere l’Oscar per la miglior sceneggiatura, la Coppola riesce a costruire un’opera che si fonda sul nulla. Un cinema costruito sulle attese, sui momenti di stasi: un cinema che sembra rifiutare i concetti stessi di premessa e di conclusione. Un cinema in cui sembra aleggiare una leggerezza vagamente rhomeriana.
Lo sguardo della regista appare cinico e impietoso nell’afferrare gli aspetti più “trash” della vita del protagonista e del suo mondo fatto di lussi sfrenati e dissolutezza. La sua macchina da presa coglie dettagli apparentemente secondari, che suscitano ilarità, come quando mostra le due ballerine di lap dance a domicilio mentre smontano i tubi, una volta finita l’esibizione. Un’ironia che conferisce un senso di desolazione e squallore. Sempre riprendendo l’idea su cui si fondava Lost in Translation, il viaggio e il breve soggiorno in un paese straniero creano lo spaesamento dei personaggi, il loro sentirsi frastornati in un luogo a loro, come all’autrice, del tutto estraneo. Se i giapponesi non hanno apprezzato come, nel film precedente, era stato trattato il loro paese, cogliendone esclusivamente gli aspetti pacchiani, cosa dovremmo dire noi italiani, ora che la regista approda nel belpaese mostrando la spazzatura della nostra televisione e il suo trionfo autocelebrativo, vale a dire la cerimonia dei Telegatti? Ma la Coppola non si pone assolutamente il problema di approfondire gli aspetti socio-culturali dei paesi in cui approdano i suoi personaggi. Il suo sguardo non può che essere quello, superficiale, di chi si trova in un posto suo malgrado.
Tutto il film, anche nella parte americana, è un trionfo di non luoghi, a cominciare dalle lussuose suite d’hotel, di Milano come di Los Angeles e Las Vegas. I suoi personaggi sono nomadi, a modo loro, senza fissa dimora, esistenze erranti che non hanno mai messo radici da nessuna parte, anche in senso metaforico. Non c’è dubbio che in questo la Coppola ci metta tutta la sua esperienza autobiografica di figlia di un acclamato regista. Il mondo dello star system, colto nella dimensione più lontana dalle luci della ribalta, quella della solitudine e della vuotezza della vita privata dei suoi protagonisti, è quello che la regista conosce in prima persona. Lo stesso episodio dei Telegatti non è altro che la rievocazione di un suo ricordo personale, di quando, bambina, accompagnò il padre all’italica manifestazione. In questa dimensione autobiografica emerge quella profondità che sembrava mancare. L’ironia iniziale lascia il passo e i personaggi, che sembravano macchiette, acquistano d’improvviso uno spessore psicologico. E in definitiva, Somewhere, si configura per quello che è: la storia di un uomo che acquisisce la coscienza di essere genitore, dopo aver a lungo trascurato la propria bambina. La storia di un padre e di una figlia, nulla di più.
Curiosità
L’hotel in cui vive Johnny è il Chateu Marmont, dove sono passati, o hanno soggiornato, da Greta Garbo a Leonardo Di Caprio, da Marilyn Monroe a Robert De Niro. Rimane celebre perché in una delle sue stanze perse la vita, per overdose, il leggendario John Belushi.
A cura di Giampiero Raganelli
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