Le metamorfosi
di Cannes
Il problema è che la pubblicità sta cambiando. E, sebbene i “creativi” se ne stiano rendendo conto, non sanno ancora bene che pesci pigliare.
In principio erano carta stampata e affissioni. Poi arrivarono il cinema, la radio e la televisione. Ai giorni nostri ci sono i telefonini, i computer, la tv on demand, il satellitare, l’iPhone; ai giorni nostri c’è Internet, e tutto è cambiato.
Sì perché se, una volta, il valore di una campagna pubblicitaria si misurava dalla qualità e dall’efficacia di uno spot 30’’, adesso le cose sono molto diverse.
E a Cannes se ne stanno accorgendo tutti, più o meno.
Fino a qualche anno fa il premio più importante al Festival Internazionale della Pubblicità era il Grand Prix nei Film Lions. Ma, ora, la musica è completamente cambiata. La nuova parola d’ordine è “integrazione”. Al Palais, dunque, i film lasciano il posto ai Titanium che premiano la giusta commistione di mezzi diversi per comunicare uno stesso messaggio. Se la campagna sarà coerente e rispetterà le regole e il linguaggio dei differenti media, allora sarà una pubblicità di qualità, che lascerà il segno e che sarà premiata.
Si aprono così nuove frontiere e nuove definizioni per le vecchie categorie. Non potendo più essere valutati solo in maniera unitaria, gli spot vengono spezzettati, sminuzzati e analizzati nelle loro varie peculiarità. Nasce così la categoria dei Film Craft (Grand Prix 2010 a The Gift per Philips), che premia i diversi aspetti dei commercial, dagli effetti speciali alla fotografia, dalla regia all’animazione.
Insomma, a parer mio, quest’anno avrebbe dovuto vincere il massimo riconoscimento lo spot A Man Who Walked Around the World per il whisky Johnny Walker, sei minuti di piano sequenza – mai interrotto – in cui l’attore Robert Carlyle (il protagonista di Full Monty), spiega l’entusiasmante vita del fondatore della “factory” camminando sullo scorcio dei monti scozzesi.
Invece, il Grand Prix nei Film l’ha vinto il banalissimo The Man Your Man Could Smell Like per Old spice. Un 30’’ che pubblicizza un deodorante grazie a un personaggio famoso – in Usa – e giochi di parole – americani – che, dicono, sono entrati nel linguaggio di uso comune. Sarà.
Comunque sia, tutto questo rappresenta un chiaro segnale da parte dell’industria. “Premiamo il buon caro vecchio spot, perché quelli nuovi, più interessanti, fanno parte di un nuovo linguaggio che non abbiamo ancora imparato a classificare” o ad assimilare, forse.
In effetti, come si fa a paragonare sei minuti con un trenta secondi, un film in versione mignon e un classico commercial? È che la marca, per contattare il consumatore, sta cominciando a parlargli davvero, a costruire delle storie.
Che la rivoluzione digitale abbia definitivamente relegato il vecchio spot in soffitta? Certo è che, grazie a Internet, a YouTube, alla fruibilità dei messaggi, in qualsiasi luogo e momento solo attraverso lo schermo di un pc o di un iPhone, il racconto, ovvero il contatto, può essere più lungo e più strutturato.
Penso tutto questo, mentre passeggio per la solita, incantevole Croisette, mentre guardo i pubblicitari, con occhiali in tartaruga anni Ottanta e cappellino fashion in testa, prendere l’aperitivo fuori dal Martinez, o ballare sulla spiaggia alle feste private. Cambiano le abitudini e cambiano le marche. Solo i pubblicitari mi sembrano un po’ sempre uguali a se stessi.
A cura di Alice Dutto
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