Il ritorno dello humor yiddish
Prendete l’odissea esilarante di un road movie alla Little Miss Sunshine con tanto di morto nel bagagliaio. Aggiungete l’ironia dolce amara nel trattare l’Olocausto ebraico, così come ha fatto Mihailean in Train de vie o il nostro stesso Benigni con La vita è bella. Spolverate il tutto con una dose devastante di umorismo yiddish, a metà strada fra i fratelli Coen e il miglior Woody Allen. Ecco che avrete ottenuto Simon Konianski, una delle pellicole più divertenti che è arrivata nelle sale italiane questa primavera.
Micha Wald, alla sua seconda regia dopo la rilettura in chiave drammatica di Voleurs de chevaux, torna sul grande schermo con una commedia capace di straripare comicità attraversando numerosissime tematiche che si incrociano e si contaminano fra di loro: dallo scontro generazionale, alla crisi di coppia; dal rapporto con la propria storia passata (la Shoah) a quella presente (il conflitto israelo-palestinese), passando naturalmente dalla ricerca delle proprie radici e delle memorie perdute. In questo orizzonte in equilibrio sulla storia e su un’intera cultura, lo sguardo di Wald può apparire confuso e quasi grottesco, ma non ci vuole molto per capire che tutta l’opera è imbastita da una lucidità narrativa che non lascia quasi niente al caso. Dopo solo pochi minuti si è rapidamente travolti dalle spassose situazioni che si creano nel microcosmo del protagonista Simon, azzeccato personaggio interpretato da un insuperabile Jonathan Zaccaï (che ricorda da una parte l’Elijah Wood “nerd” di Ogni cosa è illuminata e dall’altra la nevrosi ipocondriaca di un certo Woody Allen); sia nella prima parte, più focalizzata nel rapporto con il padre e la cultura yiddish, sia nella seconda, più declinata in una surreale (a tratti amara) metafora della stessa diaspora ebraica, con un viaggio nel cuore di un uggioso Est europeo, fra fantasmi, lapidi funebri, campi di concentramento e simbolismi più o meno misteriosi. Il tutto con uno stile dissacrante ben evidente anche nella scelta di una colonna sonora assolutamente contrastante e “sudamericana”, che incalza il ritmo della narrazione a colpi di rumba, samba e cha cha.
E così come sono innegabili i debiti cinematografici con i già citati film che penalizzano in déjà vu l’opera di Wald, così è innegabile che Simon Konianski sa emergere come una pellicola che ha il merito di demolire con le risate tabù e temi scomodissimi, senza banalizzarli ma anzi, prendendo in giro (senza cinismo) la stessa banalizzazione “seriosa” di alcuni approcci alla storia (anche drammatica) del popolo ebraico e ai suoi vizi contemporanei. Ed in questo film è proprio il linguaggio irriverente nel raccontare la cultura ebraica che oggi appare prezioso nella sua capacità di recuperare l’”autoironia solidale” che con il tempo è stata persa di vista da molti narratori e di cui invece è intriso il lavoro di Wald. Sarà infatti nel crescendo finale del film che lo spettatore elaborerà meglio il risultato raggiunto dal dramma che incontra la comicità, dal passato che entra nel presente (e nel futuro) e dalla fine di un viaggio che, come spesso accade, ne inizia uno nuovo con una meta sempre più chiara e consapevole.
Curiosità
All’origine del progetto che ha dato vita a Simon Konianski c’era un cortometraggio che Wald ha realizzato nel 2004 e che si intitola Io & Alice.
A cura di Daniele Lombardi
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