La morale del mezzo
Pini scuri e immobili si riflettono su uno specchio d’acqua, calmo. I titoli di apertura scorrono su questo sfondo finché la quiete viene spezzata da un tonfo sordo che rompe l’acqua in mille cerchi concentrici. Comincia così Revanche di Götz Spielmann, impropriamente sottotitolato Ti ucciderò nella versione italiana. Impropriamente perché non ne è la traduzione, ma soprattutto perché inganna chi si accinge a vederlo. Non è un action movie e nemmeno un noir, forse un thriller ma più semplicemente un film drammatico. Ci si potrebbe trovare dell’ironia in questa pellicola, quella amara de L’uomo che non c’era, con un finale positivo, rasserenante, fin quasi “buonista” (elemento che di per sé lo allontana dal genere noir).
Da una trama incentrata sul senso della vendetta e sulla responsabilità delle nostre azioni, ci si aspetta conclusioni cupe, moraliste. Non che manchino in questo film, ma la sua è una morale del mezzo, dei grigi più che del bianco e nero. In un mondo dove le cose accadono per caso, i protagonisti trovano le risposte al proprio dolore in modi diversi: chi nella presenza di Dio, chi nella fatica del lavoro manuale. Se il racconto parte con un dualismo insistito fra due realtà quasi antitetiche (città / campagna, famiglia / bordello, torte / cocaina), si chiude affermando che i confini fra giusto e sbagliato sono poco definibili. E di conseguenza anche quelli della colpa.
Il peccato e la pena, il colpevole e il giustiziere sono due facce della stessa medaglia, una testa e una croce che non si guardano ma che sono indissolubilmente legate dallo stesso dolore. È proprio quando queste due facce si affrontano direttamente che si demolisce la struttura su cui poggia il desiderio di rivalsa (Revanche). Solo allora si può gettare in fondo al lago la vendetta.
Curiosità
Il film ha ricevuto la nomination per l’Oscar come miglior film straniero e si è aggiudicato diversi premi collaterali nella sezione Panorama al festival di Berlino.
A cura di Francesca Arceri
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