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I pazzi negano di essere pazzi

I pazzi negano di essere pazzi

La genialità e la cinefilia di Martin Scorsese, dei suoi storici collaboratori – vedi Thelma Schoonmaker – e di premiate personalità nostrane come Dante Ferretti non possono che creare meraviglie, in questo adattamento dell’omonimo romanzo di Dennis Lehane (L’isola della paura, 2003), già autore di Mystic River (2001) e Gone Baby Gone (1998). Forse ancora di più per chi il romanzo l’ha divorato e riesce a leggere nell’accostamento espressionista delle inquadrature, nella scenografia surreale e nell’inquietante colonna sonora che imita l’incedere dello “squalo” spielberghiano l’allucinazione resa sostanza. Dispiace solo per l’impossibilità di gustarsi un finale già noto.

Ultimamente Scorsese sembra, infatti, aver preso gusto nei finali a sorpresa, che ristabiliscono le leggi della realtà strappando di mano allo spettatore un lieto fine troppo cinematografico. Qui si spinge oltre, gioca con il pubblico, in un andirivieni di flash-back (la seconda guerra mondiale e i lager nazisti, la moglie morta) e allucinazioni generate dalla mente del protagonista. E gioca, al contempo, con il mezzo cinematografico, da esperto regista appassionato di cinema qual è, creando architetture complesse su ogni piano della comunicazione. Esaspera i movimenti di macchina, con riprese prospettiche dal basso o estremi close-up; rielabora il concetto di montaggio, con un editing che spiazza per la giustapposizione di inquadrature contigue di cui vengono tagliati i frame di passaggio o, altrimenti, con cut che stabiliscono legami profondi con il cinema di montaggio degli albori (Ejzenštejn su tutti) o con quello surrealista di Buňuel e Dalì; lavora su una colonna sonora che rimbomba in potenti suoni terribilmente minacciosi e che poi riecheggia sulla note del Quartetto per archi e pianoforte in Do minore del compositore tardo romantico Gustav Mahler; usa una fotografia spesso falsata, in linea con una scenografia volutamente teatrale e gotica, che non cerca di imitare la realtà, quanto di “rappresentarla”, interpretarla. Tra le righe si leggono alcuni momenti di indimenticabili pellicole, da Qualcuno volò sul nido del cuculo (Milos Forman, 1975) a Shining (Stanley Kubrick, 1980). E ci si immerge nelle distorsioni narrative, stilistiche e scenografiche care all’espressionismo tedesco di Robert Wiene, F.W. Murnau e Fritz Lang, che il regista confessa di avere amato sin da ragazzo (per inciso, c’è anche un’inquadratura in primissimo piano di Di Caprio che quasi duplica quella del robot di Metropolis, 1927). Il regista attinge al genere thriller-psicologico e al noir in un modo del tutto personale, realizzando, con la sua équipe, un’opera “d’arte” complessa e ricercata, almeno per i primi tre quarti del film, densi e inquietanti. Quando il mistero – complicato dall’ormai inflazionato ricorso a enigmi numerici – verrà risolto, il film recupererà, difatti, una linea narrativa tradizionale, per di più appesantita dall’entrata in campo dei soliti elementi di psicanalisi spiccia. Il contraltare sarà, inevitabilmente, l’allentarsi della morsa dell’angoscia di cui prima lo spettatore era vittima inerte.

Sul fronte attoriale, Di Caprio interpreta ancora, dopo il Billy Costigan di The Departed, un personaggio tormentato e infelice, sfiancato da mal di testa insopportabili e arrabbiato col mondo intero per una felicità prematuramente negatagli, un personaggio complesso che deve venire a un compromesso con i suoi sensi di colpa. Il resto del cast vanta personalità sacre quali Ben Kingsley e Max Von Sydow (attore feticcio di Ingmar Bergman la cui scelta non è affatto casuale). Tirando le somme, Scorsese firma ancora un film che merita almeno una visione e che coinvolge totalmente, con tutti i sensi, il suo pubblico. Però, ammettiamolo, da un maestro del cinema americano ci si poteva aspettare qualcosa di meglio nell’epilogo – perché i colpi di scena perdono di efficacia se rendono limpido un racconto che per esigenze narrative deve apparire a tutti gli effetti contorto.

Curiosità
Per il film non è stata composta nessuna colonna sonora originale: su suggerimento di Scorsese, infatti, Robbie Robertson ha raccolto vari generi musicali, spaziando da Gustav Mahler a Brian Eno. Il risultato è a dir poco eccentrico e inquietante.

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