Cosa avrebbe fatto Harry Silva?
Inizia con l’omicidio di un bambino, continua con il rapimento di un anonimo impiegato comunale e sfiora anche l’argomento Camorra. Ma non pensate ad un dramma di denuncia sociale, si tratta di un film autoprodotto che omaggia il poliziottesco anni Settanta apertamente e che usa la povertà di mezzi come un arma a favore. Grottesco e drammaticamente divertente, finalmente è arrivato il vero manifesto dei trentenni di oggi. Quella generazione mille euro (se va bene) di impiegati part time a tempo determinato senza rimborso spese. Quelli che vorrebbero fuggire dal call center, ma non riescono a trovare l’uscita. Quelli che dovrebbero identificarsi in “mocciosi” urlanti che si lamentano dai loro lussuosi loft romani, ma che preferiscono immaginarsi nella periferia di una Milano che non può sparare.
I trentenni di oggi (nel senso generazionale, non anagrafico) cercavano disperatamente qualcuno che parlasse davvero di loro, non sentendosi più rappresentati da niente e da nessuno sia culturalmente sia politicamente. Ecco che il vuoto è stato finalmente colmato dal Collettivo John Snellinger, un gruppo di amici pratesi, che ha inforcato carta, penna e telecamera e ha trovato le parole e le immagini giuste per raccontarsi. Lo fa attraverso feticci anni Settanta, zoom e facce da schiaffi (simboli di un Italia improvvisamente desaparecida), riuscendo a farci divertire e al contempo a raccontare lo scontro generazionale che caratterizza questi (strani) tempi. Quale scontro? L’impossibilità dei cinquantenni di capire il problema del precariato (verso) l’impossibilità dei venti-trentenni di far comprendere il proprio disagio profondo ai loro genitori. Il classico elefante nella stanza che da troppo tempo facciamo finta di non vedere e che il film riesce a indicare candidamente e con uno straordinario tocco grottesco e cinefilo. Battute fulminati che segnano ogni scena, alcune solo comiche (il capoufficio che chiede allo stagista di dividere gli elastici per colore) altre sconfortanti nella loro drammaticità (“ci avete dato i mezzi e tolto gli scopi” dice il ventenne al cinquantenne). E sebbene i mezzi tecnici siano poveri e alcune scene, soprattutto quelle d’azione, risultino troppo “home made”, La banda del Brasiliano nella sua divertita semplicità non solo ci indica l’elefante, ma ci mostra i danni che ha causato, quelli che sta per causare e anche il perché non riusciamo a riportarlo alla foresta a cui appartiene.
Lungi da noi lanciarsi in un’esegesi cinefila e critica di questo piccolo, piccolo film, anche perché saremmo ingenerosi. La banda del Brasiliano è divertente e divertito, si prende sul serio nella sua “cazzonaggine” e lo abbiamo amato per questo. Eppure è evidente che il Collettivo ha ben riflettuto sul modo migliore di mostrare il proprio (e nostro) disagio. I monologhi che i rapinatori a turno rivolgono all’impiegato comunale, utilizzano quelle parole che ogni precario di oggi vorrebbe saper utilizzare, nella speranza di essere compreso da coloro che sono venuti prima di loro. Il film sarà distribuito pochissimo e vederlo potrebbe essere un’impresa, ma tentate assolutamente, cercatelo, richiedetelo e se vi sentite precari dentro e i vostri genitori non vi capiscono, portate anche loro. Forse non vi rivolgeranno la parola per un po’, ma magari potrebbero capirvi di più.
Curiosità
Il collettivo John Snellinberg lavora da tempo e ha già autoprodotto molti lavori, tra lungometraggi e cortometraggi. La banda del Brasiliano, costato circa 2 mila euro, è il primo film che riesce a trovare una, seppur minima, vera distribuzione, anche grazie alla partecipazione dell’attore Carlo Monni (il Vitellozzo di Non ci resta che piangere) e al passaparola positivo sul web.
A cura di Sara Sagrati
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