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Il vaso di Pandora

Il vaso di Pandora

A poche settimane dalla sua uscita, Avatar ha già collezionato un trionfo al botteghino (oltre un miliardo di dollari in tutto il mondo) e numerose e diffuse critiche, da quella di razzismo a quella di istigazione al suicidio, a quella di panteismo. Insomma chi più ne ha più ne metta, e questo significa due cose: primo, un film che fa discutere è in qualche maniera un buon film; secondo, significa che ha smosso qualcosa, e anche nelle critiche più assurde si cela un fondo di verità. Andando per ordine: chi accusa la pellicola di razzismo sostiene che la storia di un marine bianco che salva una razza aliena perpetui la favola del messia bianco e suggerisca che i non-bianchi siano genti primitive, incapaci di salvarsi da sole.

Il che porta direttamente a una prima considerazione: Avatar non passerà alla storia del cinema per la storia che racconta. La trama del kolossal di Cameron infatti è piuttosto banale e racchiude in sé numerosi stereotipi di storie affini, come è già stato rilevato praticamente da chiunque. Ricorda Balla coi lupi, e anche un po’ Pocahontas e Braveheart, e probabilmente molto altro. Ma questo Cameron, che ha scritto la sceneggiatura, lo sa, e gli interessa relativamente, perché quello che importa, in un progetto nato nel lontano 1995, quando ancora la tecnica non lo supportava, è lo spettacolo. Lo spettatore di Avatar non va al cinema a vedere un film, va a prender parte a uno spettacolo assolutamente inedito. E tanto coinvolgente che qualcuno già parla di “sindrome di Pandora”: quando si esce dalla sala e si torna alla realtà, ci si sente un po’ depressi (e qui l’origine della seconda critica cui accennavamo sopra). Perché Pandora è un capolavoro della natura, e un capolavoro di tecnologia: un 3D innovativo, oltre alla rivoluzionaria tecnica del “performance capturing” per cogliere le espressioni degli attori e trasporle in animazione digitale, danno all’ambiente una tridimensionalità che rende lo spettatore partecipe della scena come mai prima d’ora. E nel vaso di Pandora scoperchiato dal regista di Titanic c’è una natura lussureggiante e magica, in cui l’energia ha le forme e i colori che aveva forse anche nel nostro mondo, agli occhi dei primi uomini, quelli che sapevano guardarlo con purezza, e che a ogni elemento vitale attribuivano una valenza spirituale e simbolica (da qui l’accusa di vago panteismo mossa al film dal Vaticano, che citiamo giusto come nota di colore). La luccicanza e la trasparenza di certe creature marine sono mescolate alla sacralità di rocce fluttuanti che mandano in tilt i sistemi spazio-temporali di un’umanità che non merita più il proprio nome.

Un’esperienza visiva inedita che mette un “punto e a capo” nella storia del cinema, non solo di quello fantascientifico. Questo offre Avatar, ma sarebbe riduttivo cercarne l’importanza nel solo versante tecnologico, come qualcuno sta facendo. Per quanto le tematiche non siano apparentemente nuove, la pellicola ha il merito (ricordiamoci che trattasi di un kolossal d’intrattenimento) di inserirsi in un ambito di discussione quanto mai attuale come quello ambientalista, sollevando a suon di anticapitalismo e antimilitarismo anche la questione filosofica di una second life per un’umanità che non basta più a se stessa e vuole, forse deve, rinnovarsi attraverso l’integrazione con l’“alieno”. E Avatar lo fa con una spudorata bellezza visiva, la giusta superficialità e la potenza ineguagliata delle favole che hanno una morale. In fondo al vaso di Pandora resta, più che la speranza, lo stupore. In fondo è ancora la razza umana, col suo potere immaginifico, ad aver creato questo mondo.

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