Tra i fratelli manca la sensibilità
Tutta la trama dell’ultimo film di Jim Sheridan si concentra, o meglio, vorrebbe concentrarsi sul difficile rapporto tra Sam e Tommy Cahill, due fratelli nei quali sembra di poter scorgere l’ombra ancestrale di Abele e Caino. Sam è un esempio di virtù patrie e domestiche, marine coraggioso e family man modello, mentre Tommy non è altro che un ladruncolo, un fallito, anche come criminale. A cambiare i rapporti, i ruoli incarnati dai due fratelli all’interno del contesto familiare e sociale interviene la guerra. La partenza e la presunta morte di Sam permettono a Tommy di inserirsi in quel contesto familiare che lo aveva sempre guardato con sospetto e di riscattarsi dalle colpe commesse in passato; Sam, invece, una volta tornato a casa non riesce più a ricoprire il suo vecchio ruolo di padre e di marito: le sue figlie hanno paura di lui, dei suoi silenzi, dei suoi scatti d’ira, del suo sguardo allucinato; sua moglie diventa il soggetto su cui trasfigurare le proprie colpe, a cui imputare “tradimenti” in realtà da lui commesse. La guerra, sembra voler dire Jim Sheridan, è una tragedia non solo perché portatrice di morte, ma soprattutto perché in grado di stravolgere completamente le esistenze di coloro che rimangono in vita, nel bene e nel male. Per Tommy la guerra significa ottenere un affetto e una rispettabilità che prima non aveva, mentre per Sam significa perdere tutto ciò che prima aveva, che prima era. Emblematico a tal proposito, è il confronto tra le scene iniziali del film, in cui vediamo Sam recarsi a prendere suo fratello appena uscito di prigione, e quelle finali, in cui proprio la voce, il volto di Tommy riescono a liberare Sam dalla sua prigione mentale, a farlo tornare in sè. Questi due uomini, estranei l’uno all’altro, proprio grazie alla guerra riescono a recuperare la dimensione fraterna del loro rapporto.
Detto questo, dispiace però affermare che proprio l’evoluzione del rapporto tra i due fratelli è, paradossalmente, la parte meno riuscita di tutto il film, pur dovendone costituire il cuore. Non vi è una reale interazione tra i due, tale da giustificare il valore dell’intervento del personaggio di Tommy nel momento di maggiore tensione drammatica, e questo a causa di una sceneggiatura che non ha saputo soffermarsi su tale aspetto con maggiore profondità e sensibilità. Sembra sempre che manchi qualcosa che invece doveva esser detto, un gesto, una parola che avrebbe fatto maggiormente apprezzare la frase che Sam, una volta tornato in sè, rivolge a Tommy: «perché tu sei mio fratello». Lo stesso Tommy, interpretato da un Jake Gyllenhaal incapace di mutare espressione lungo tutta la durata del film, è un personaggio che avrebbe meritato una complessità maggiore; invece passa dal ruolo di ladruncolo a quello di angelo del focolare davvero troppo facilmente, forse a causa della benefica influenza della cognata Grace (una Natalie Portman sempre ben pettinata e con i vestiti ordinati, anche nei momenti più difficili e tragici) o delle due “adorabili” nipotine. L’unico personaggio ad essere realmente degno di menzione è proprio quello di Sam Cahill, un uomo distrutto non perché ha affrontato la morte, bensì perché ha fatto di tutto pur di rimanere in vita e il prezzo da pagare per la sua salvezza è il pentimento, la vergogna, il dolore. Tobey Meguire, smessi i panni di Spiderman, riesce a rendere benissimo la parte di quest’eroe a pezzi, il suo tormento interiore, la sua crescente follia.
Una categoria, quella degli “eroi a pezzi” che il cinema roboante e certa informazione si vergognano ancora troppo di mostrare. L’immaginario collettivo abbonda di soldati che combattono, più o meno coraggiosamente, per la patria, la famiglia e i propri compagni d’arme; ma cosa accade quando questi soldati tornano a casa? Proprio nel suo essere anche una risposta a questa domanda, Brothers riesce a salvarsi dall’anonimato. Jim Sheridan ci mostra una verità che poche volte viene presa in considerazione, ovvero che tornare vivi dalla battaglia non significa salvarsi, perché la guerra uccide la mente e il cuore di un uomo. Peccato però che il film non riesca realmente a commuovere nè a muovere quelle corde dell’animo dello spettatore a cui, probabilmente, tendeva. La sensazione finale è quella di un’opera la cui grandezza è stata possibile intuire ma non vedere, perché non sono state sviluppate adeguatamente le potenzialità drammatiche della vicenda.
Curiosità
Il film è un remake di Non desiderare la donna d’altri, film danese del 2004 diretto da Susanne Bier e vincitore del premio del pubblico al Sundance.
A cura di Saba Ercole
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