Galleggiare e sopravvivere
Il senso dell’attesa, l’inadeguatezza della speranza, l’ansia della solitudine di una madre che ha partorito prematuramente sua figlia sono le corde principali toccate dal film di Francesca Comencini. Ma Lo spazio bianco non è solo un film su una maternità sofferta e vissuta/guardata diversamente, cioè da una donna, con un punto di vista sconvolgente, costretta a fare i conti con una visione ingombrante.
Lo spazio bianco è un film che va ascoltato prima ancora che guardato, che scava a fondo per scovare gli strati più intimi dell’animo umano attraverso la musica incessante, i silenzi, le pause, il ritmo. Seguendo questa tracce Francesca Comencini ha messo in scena la vicenda di Maria (Buy), ispirata al romanzo di Valeria Parrella (edito da Einaudi), insegnante di italiano in una scuola media serale di Napoli, single solitaria e individualista, inaspettatamente rimasta incinta e sganciata dal partner, protagonista di un’esperienza indimenticabile e incomprensibile. Un’esperienza, cioè, di difficile comprensione nella quale i particolari, la comunicazione, lo scambio di messaggi significativi, i modi del linguaggio, risultano fondamentali e assumono un valore simbolico sempre più specifico e determinante, per la donna e per l’intera vicenda del film. Nello spazio bianco, il reparto specializzato nella cura dei bambini prematuri, Maria impara a vivere una nuova vita e con una nuova vita. Il tempo dedicato alla nascita definitiva di Irene si trasforma gradualmente e si scolpisce sul suo volto: dapprima impaziente e impaurita, in seguito sempre più desiderosa e accogliente, pronta alla novità. È nel cambiamento di Maria che lo spazio bianco assume pure una valenza simbolica: come nella pagina bianca, cioè vuota, di un libro, la donna riempirà di persone, scelte, pensieri la sua nuova vita. E in questa direzione è fondamentale la questione linguistica. Maria, durante i mesi di attesa, impara (lei che insegna la lingua italiana) il nuovo linguaggio dell’amore, fatto di condivisione e ascolto.
Francesca Comencini è attenta a mettere a fuoco la fatica della metamorfosi di Maria, che la porterà ad essere una donna diversa, ma pure a rappresentare con lucidità e lealtà l’inquietudine di fondo che caratterizza il film. Dalle soggettive scelte per guidare lo spettatore dentro la novità e l’incognita dello spazio bianco, passando alle inquadrature che raccontano le spigolature più intime e originali di Napoli, fino alla capacità di mescolare presente e passato attraverso l’uso di flashback descrittivi (ma sempre evocativi), o alla presenza/funzione di alcuni personaggi chiave che sciolgono i nodi della tensione, il film non chiude mai il dialogo con lo spettatore. Lo spazio bianco è un film che vuole raccontare (concedendosi pure alcune inutili precisazioni e adottando, forse, una strategia non del tutto coraggiosa che privilegia, in certi casi, la leggerezza al dramma) il percorso di maturazione di due esseri umani, di due donne, attraverso la potenza dell’immagine e del linguaggio del cinema, visioni surreali, suoni soul e corpi in movimento. E la Napoli deserta del prefinale, sembra rivelarlo.
Curiosità
In Concorso alla 66. Mostra del Cinema di Venezia. L’autrice del romanzo Valeria Parrella è nata nel 1974, vive a Napoli. Ha pubblicato Mosca più balena (minimum fax 2003, Premio Campiello opera prima), Per grazia ricevuta (minimum fax 2005, finalista Premio Strega, Premio Renato Fucini, Premio Zerilli- Marimò) e Il verdetto (Bompiani 2007). Per Einaudi ha pubblicato Lo spazio bianco (Supercoralli, 2008) e Tre terzi (2009), con Diego De Silva e Antonio Pascale.
A cura di Matteo Mazza
in sala ::