Scandalo all’ombra del romanzo rosa
Per una volta proverò a recensire un film, Viola di mare, presentato in concorso alla quarta edizione del Festival del Cinema di Roma, senza scinderlo dal contesto in cui è avvenuta la proiezione. L’allegro pubblico romano, più festivaliero che cinefilo, è forse ancora meno permissivo di quello veneziano. Mi sono seduta nella gelida sala Ikea provando a liberarmi da ogni pregiudizio sull’operato, pur volenteroso, della produttrice Cucinotta e, in generale, da ogni preconcetto verso un certo tipo di cinema italiano che puntualmente viene accostato alla fiction, e che della fiction ricalca gli schemi narrativi ed i personaggi. Con la mente sgombra mi ritrovo dunque in una selvaggia Sicilia ottocentesca, tra pescatori e scavatori di tufo, ho di fronte una ragazza (Valeria Solarino, Angela) che si innamora di un’altra (Isabella Ragonese, Sara), un’invasata religiosa (la stessa Cucinotta) violentata da un prete nonché amante del cognato, lo stesso padre-padrone di Angela alla quale viene imposta ogni possibile angheria.
Ma voglio comunque continuare a provarci, perché intravedo qualcosa di buono aldilà di un calderone che mi sembra già visto: la dolcezza di Isabella Ragonese, l’impegno di Valeria Solarino, la sferzata rock delle musiche di Gianna Nannini, un ritmo senza dubbio calzante supportato da un montaggio ricco di rapidissimi flash forward, se non altro interessante. Dunque perché tutti ridevano? Sarà stato l’imbarazzo provocato dalle ripetute (e lunghe, ed intense) scene d’amore lesbo? È possibile che in Italia non si riesca a scrivere una storia d’amore un po’ fuori dagli schemi senza apparire ridicoli? In effetti, la causa di tale indisponibilità del pubblico ad accettare il gioco di Viola di mare sta forse nell’eccessiva improbabilità del compromesso richiesto: Angela, dopo esser stata reclusa in una botola per lungo tempo (senza morire), per poter vivere pienamente la sua storia d’amore con Sara, si taglia i capelli, si veste da uomo e diventa Angelo, prendendo in mano le redini dell’odiata impresa paterna e convolando addirittura a nozze. In seguito alla morte di parto della compagna (seme gentilmente concesso da Tommaso, Marco Foschi, un tempo ignaro promesso sposo di Sara) dopo esser stata Angelo per un po’, la protagonista re-indossa in modo discinto un abito lungo e ritorna Angela.
Lo stratagemma rivela l’origine letteraria della sinossi: è una finzione nella finzione troppo spinta per il pubblico cinematografico, per lo più inaccettabile, quanto invece può risultare poetica e trasognata nel contesto letterario da cui proviene, ossia il romanzo edito da Mursia nel 2004. Nonostante non mi sia né indignata né imbarazzata e di sicuro neanche annoiata, è comunque parte del mio compito da recensore cercare di comprendere perché il pubblico intorno a me ridesse. Forse il gioco con l’identità sessuale è fin troppo confuso e indeciso per potervi aderire suscitando, a malincuore dico inevitabilmente, quella serpeggiante ilarità che la platea non è riuscita a trattenere.
A cura di Daniela Scotto
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