Il motel oltre la collina
Il raduno hippie del 1969 è sullo sfondo di questa commedia generazionale che racconta tutto quello che è avvenuto prima, durante e dopo la “tre giorni di pace, amore e musica” presso il White Lake di Bethel, nello Stato di New York. Il festival musicale di Woodstock è dappertutto, senza mai essere mostrato. Ang Lee si prende la libertà di aggiustare nomi, date e dettagli e di costruire una commedia ispirata al romanzo autobiografico di Elliot Tiber, proprietario del motel El Monaco che si offrì di ospitare l’evento sui propri terreni.
Il risultato non è un documentario né un film celebrativo, ma una storia che riesce a comunicare tutto lo spirito del leggendario avvenimento senza scadere nel nozionismo né risultare promozionale. Una gradevole e ironica narrazione che restituisce i colori, la frenesia, gli ideali, la musica di un’epoca lasciando, semmai, un sacco di appetiti inappagati in fatto di sapori, odori ed effetti psicotropici evocati dalle immagini. Nel film, Elliot è un giovane studente di campagna che aiuta i genitori ebrei a mandare avanti lo sgangherato motel familiare. L’opportunità di ospitare l’evento musicale, ancora in cerca di una location, gli fa intuire la possibilità di rilanciare l’economia della sperduta comunità, portandola, per qualche giorno, “al centro dell’universo”. Certo la burocrazia, allora come oggi, era un ostacolo impegnativo per chi volesse organizzare qualsiasi avvenimento pubblico. Così come la diffidenza degli abitanti, dei vicini, delle vecchie generazioni nei confronti dei più giovani e delle loro attività sono delle costanti apparentemente irremovibili che accompagnano ogni epoca. Anche per questo il successo del festival ha dell’eccezionale e coinvolge non solamente gli aspetti logistici accennati nel film, ma il rapporto tra genitori e figli in un momento di ridefinizione simbolica complessiva del rapporto tra generazioni. Un buon argomento per bollare come debosciati quelli che vengono dopo di noi si trova sempre. C’è però da chiedersi se le evasioni o le sregolatezze attribuite ai giovani di oggi non siano facezie rispetto alla portata di quanto si sperimentava in quegli anni. Anche oggi, come per il protagonista del film allora, conquiste, esperienze e gesti di discontinuità segnano il passaggio dall’adolescenza alla maturità, l’emancipazione dalla famiglia. Ma questo avviene forse in modo più graduale e meno conflittuale, sicuramente meno appariscente. Potrebbe anche dirsi che oggi questa maturazione non avvenga mai. Quarant’anni dopo Woodstock, la responsabilità di questo potrebbe essere proprio nella mancanza di un desiderio di discontinuità e nella perdita del valore dell’evasione come esperienza. I ragazzi, oggi, sono addirittura più coscienti (e coscienziosi) ma meno visionari e sperimentatori, attaccati a valori più utilitaristici.
Mentre si tenta da più parti di calcolare i danni sociali e condannare i falsi miti dei movimenti degli anni Sessanta e Settanta, fa un grande piacere assaggiare la carica positiva che il film dispensa sviluppando le tre parole chiave del festival: pace, amore e musica. Vorrà pure dire qualcosa che, nonostante l’invasione hippie, non si sia registrato nemmeno un disordine e che mezzo milione di persone abbia cooperato in armonia per diversi giorni. Quelle parole sono ancora incredibilmente attuali e le immagini sono un ottimo carburante per ravvivare la stanca e rassegnata voglia di attivismo politico e sociale, in anni di menefreghismo e disinteresse. Che bella la coralità della fotografia, la spontaneità del nudismo, l’onirismo acido. «Amo questa collina», «questo festival è bellissimo» dicono i protagonisti contemplando ciò cui hanno dato vita. Chi lo potrebbe fare oggi?
A cura di Lorenzo Lipparini
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