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Donare o non donare gli organi?

Donare o non donare gli organi?

«Da piccola, mia madre mi diceva che ero un frammento di cielo blu arrivato nel mondo perché lei e papà mi volevano tanto bene. Solo dopo ho capito che non era vero». Questa frase, pronunciata con voce off all’inizio del film da Anna, la bambina concepita in provetta come banca di organi compatibili per la sorella, rende quello che sembra essere inizialmente il senso del film. Quello cioè di impostare un problema etico, ma anche eugenetico. Sono frequenti i casi, sempre segnalati con buona dose di scalpore dai media, di genitori che, nella mancanza di donatori compatibili per un figlio gravemente ammalato, concepiscono appositamente un altro bambino. Se poi il nascituro viene programmato geneticamente in provetta, perché sia compatibile con il fratello, in vista di trapianti, allora rientriamo a pieno titolo in una pratica di eugenetica. E tuttavia si deve anche comprendere la sofferenza dei genitori nel prendere una tale decisione, perché si tratta dell’ultima speranza rimasta. Nel film sono proprio i medici a suggerire sottovoce, di fare così. E a tutto ciò si aggiunge il libero arbitrio del figlio sano. Questo è quello che apparentemente vuole dirci il film. Entrare nella mente di chi è consapevole che la propria esistenza sia stata voluta per fini utilitaristici, ma che comprende anche la necessità di salvare un congiunto verso cui si prova grande affetto. La decisione è davvero ardua. Cercare di salvare la vita della sorella a costo delle continue sofferenze di interventi molto pesanti e di un’aspettativa di vita inferiore avendo donato un rene? Oppure vivere la propria esistenza lasciando morire la sorella? La mia vita contro la tua.

Questo conflitto però viene alla fine eluso con la sorpresa finale, non spoilerabile. Forse perché è molto difficile per un’opera hollywoodiana impostare semplicemente un problema, senza prendere posizione e, prendendola, si sarebbe scaduti nel film a tesi. Ma la scelta del regista peggiora tutto e appare quantomeno vigliacca. Pardon, abbiamo scherzato: si trattava quindi di una falsa contrapposizione. Evapora così quello che sarebbe stato il punto di forza del film.

La custode di mia sorella rimane il racconto di una sofferenza, reso credibile per essere un bel film d’attori. Rimangono situazioni un po’ “telefonate” come la prevedibile morte del ragazzo. E poi l’accumulo di sfiga che raggiunge l’apice con l’epilessia dell’avvocato: forse nel romanzo ci sta anche, ma per un film decisamente un po’ troppo. E il finale in un laghetto di montagna, osservando un tramonto: il clichè di tutti i clichè.

Curiosità
Sofia Vassilieva, che interpreta la ragazza malata, si è rasata a zero per il suo ruolo. Dai suoi capelli è stata ricavata una parrucca che è stata donata a un’associazione per bambini che hanno perso la capigliatura per le cure mediche.

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