Bizzarra storia di formazione in una insolita New York anni Novanta
Con un titolo italiano che fa il verso – non si capisce bene il motivo – a Fa’ la cosa giusta di Spike Lee (Do the Right Thing, 1989), Fa’ la cosa sbagliata è una coming-of-age story, con relativo rito di passaggio e iniziazione del protagonista adolescente alla vita adulta, simboleggiata dallo spegnimento dello spinello per dar posto alla partenza per il college. Nulla di più distante, tuttavia, dai classici film del filone di formazione, questa seconda pellicola (sebbene la prima sia ancora inedita in Italia) di Jonathan Levine, che si esibisce in una nostalgica sceneggiatura fatta di ricordi sia personali (e privatissimi), sia pubblici dei nemmeno tanto lontani anni Novanta.
Per capire il film basterebbe leggere il titolo – quello originale, però – che coglie il succo della storia di questo ragazzo, pusher più per dovere che per piacere, asociale, introverso e incapace di godersi l’attimo, in cerca di qualcosa più grande che non c’è. A dirla tutta, l’espressione “wackness”, di derivazione dal lessico metropolitano di quegli anni, condito di “yo” che perdono molto nel doppiaggio, è coniata da Stephanie, il primo amore di Luke, che col suo fare diretto e solo apparentemente superficiale va proprio a colpire il bersaglio, fornendo una chiara parafrasi di quello che il patrigno analista (interpretato da un istrionico Sir Ben Kingsley) definisce “tristezza”: «Sai qual è il tuo problema Shapiro? – replica Stephanie – È che tu hai davvero un modo del cazzo di guardare alle cose, capisci? Io non ho quel problema, io vedo solo lo sballo… mentre tu vedi solo l’aspetto negativo… mi spiego?». Il fulcro del film è costruito intorno all’atipico rapporto tra un mentore “caduto”, pazzo drogato che si imbottisce di farmaci e un discepolo in crisi adolescenziale, che paga le sedute a suon di dosi di marijuana. Il tutto incorniciato da una New York estiva e spopolata, fotografata nei toni caldi e sgranati del giorno, contrapposti ai bluastri colori della notte solitaria. Siamo di fronte a un rapporto di mentoring in cui il sapere passa circolarmente da adulto a ragazzo, facendo tornare il primo un ragazzino irresponsabile e confuso, privo di punti di riferimento e soggetto a reazioni istintive e grottesche e il secondo un diciottenne che ragiona come un vecchio senza più speranze, timoroso delle conseguenze delle sue azioni e tendente, perciò, a sottrarsi a tutto ciò che potrebbe farlo soffrire. Incapace, insomma, di adeguarsi al principio dello “sbagliando, si impara”. Lo spettatore assiste, quasi inconsapevolmente, a una costante interazione e confusione tra gli opposti uomo-bambino, dottore-paziente, sano-malato, che si replica su ciascun livello relazionale, da quello genitori-figlio a quello uomo-donna, fino al più ampio confronto tra generazione sessantottina e generazione hip-hop. In un 1994 ricreato sul piano iconico attraverso il rap di The Notorious B.I.G., il Nintendo e gli inserti grafici in stile graffitaro, che tanto ricordano – da un punto di vista strutturale – quelli dell’acclamato indie Juno (Ivan Reitman, 2007), questo Fa’ la cosa sbagliata, che si è guadagnato il premio del pubblico al Sundance Festival 2009, si esprime in segni (gli abiti larghi), gesti (la mania del “fumo”, la ribellione all’autorità) e parole (caricaturali e di ribellione alla giunta Giuliani) che fanno emergere, alla fine, il nesso profondo che c’è tra padri e figli, tanto disorientati, quanto incapaci di distinguere tra bene e male, tra giusto e “sbagliato”.
I personaggi ci parlano dei loro dilemmi, delle loro trasgressioni e della loro filosofia di vita e i singoli percorsi di formazione, con le rispettive epifanie e gli atti di iniziazione, avvengono in parallelo. Protagonista è sempre il mare, che tiene a battesimo il maestro fallito e l’alunno inesperto, suggellando una rinascita molteplice, che si ripercuote su tutta la schiera di personaggi secondari, andando a definire o rinsaldare la loro collocazione nella società. Lo spacciatore solitario, che nasconde la marijuana nel carrellino dei gelati, la ragazza sveglia e di facili costumi, lo psichiatra drogato e pazzoide, gli hippy avidi sperimentatori e mai presenti a se stessi, i genitori litigiosi e il padre che, per un affare mal calcolato, mette sul lastrico la famiglia, rappresentano, in fondo, uno spaccato della nostra vita, e ci toccano nel profondo grazie anche all’uso sapiente di numerosi e pregnanti close-up. Levine è, dunque, riuscito a tradurre con successo una realtà borderline in realtà quotidiana, ideando personaggi profondamente umani e un racconto che narra una storia universale: quella della ricerca di un proprio posto nella società, che implica la sperimentazione del dolore e il continuo arenarsi in esperienze magari sbagliate, ma necessarie per crescere e ad insegnarti ad accettare i tuoi limiti. Esperienze da cui scremare la sofferenza per ricavarne lezioni di vita che ti spingono ad andare avanti e a non immobilizzarti in un’amarezza passiva.
Curiosità
Josh Peck ha recitato nel film Mean Creek (Jacob Aaron Estes, 2004), in cui interpretava la parte di George, il bullo dal carattere problematico, mentre Olivia Thrilby è stata la disinibita amica di Juno nell’omonimo film di Reitman del 2007.
A cura di Valentina Vantellini
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