L’unico velo è quello pietoso
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E così, alla fine, Towelhead esce al cinema anche qui in Italia. Lo fa, come prevedibile, con un titolo assolutamente banale, lontano anni luce dalla potenza dell’insulto gergale utilizzato nella versione originale (“testa di asciugamano”, in spregio ai copricapo mediorientali). Ma non è questo il punto. Quello che ci chiedevamo, da cinefili, era come fosse possibile che un film come questo, forte di un regista e sceneggiatore di prima qualità, nonché di un cast con almeno due nomi significativi, non riuscisse a trovare una distribuzione italiana a ben due anni dalla sua uscita negli USA. Il dubbio ci assillava con tale forza che l’abbiamo recuperato in inglese e ce lo siamo visti in largo anticipo. E lì le cose si sono chiarite: già, perché questo film è brutto.
Sì, è brutto. Anche se la sceneggiatura (non originale) l’ha scritta di suo pugno Alan Ball, già autore di Six-Feet Under e American Beauty. Anche se ci recitano Aaron Eckart – uno capace di farsi apprezzare sia nell’ambito mainstream (Il cavaliere oscuro) che in quello underground (Thank you for smoking) – e una signora caratterista come Toni Collette (Little Miss Sunshine). Anche se la storia, messa giù nei termini di “una ragazzina sola si illude di poter ricevere l’affetto di cui ha bisogno facendo leva sul sesso, ma poi capisce che quello non è amore”, sembra quasi sensata. Purtroppo, a dispetto di tutte queste buone premesse, ci tocca riconoscere che il risultato finale è a dir poco deludente. Il film è lento, banalotto, involuto, prevedibile e a tratti involontariamente macchiettistico.
Insomma, poteva (voleva?) essere un nuovo American Beauty, con la ripresa del tema dell’attrazione tra l’adulto e la ragazzina, il conflitto educativo tra genitore inflessibile e figlio sensibile e con in più la variabile dello “scontro tra culture” ad aggiungere carne al fuoco. Invece sembra la versione post-11 settembre di Thirteen, se possibile ancora più zoppicante del suo predecessore. E la colpa, ahimé, pare sia proprio del signor Ball, che come sceneggiatore sbaglia caricando a dismisura di riferimenti sessuali ogni scena, portando in breve il film fuori dai binari della credibilità, mentre come regista cilecca in modo piuttosto plateale la gestione degli attori, chiedendo talvolta una recitazione troppo sopra le righe (vedi il padre di Jasira, che a tratti sembra il Marrabio di Kiss me Licia) e talvolta troppo sottotono (vedi l’inespressiva Jasira, la cui evoluzione psicologica dovrebbe, in teoria, dettare i tempi del film). Peccato: da uno con il suo talento era lecito aspettarsi molto di più.
A cura di Marco Valsecchi
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