Dall’alba al tramonto (delle illusioni)
È la popolarissima Bésame mucho, resa celebre dall’interpretazione di Lucho Gatica, la sottile linea rossa che idealmente unisce i diversi momenti della giornata in cui Stefan Arsenijević scompone il crollo delle illusioni di un’intera generazione e la difficoltà di riscattare un passato che non passa mai. In una Belgrado periferica, grigia e asettica che, grazie alla fotografia di Simon Tansek, amplifica i moti dell’animo di chi la percorre (e dove lo spettro della guerra è presente non più nelle macerie, ma nella loro assenza, nei vuoti e nelle fredde esistenze umane) la macchina da presa si sofferma sulle vicende di Milutin, Anica e Stanislav – il piccolo boss di quartiere, la sua donna e il giovane tirapiedi – e ne descrive stasi e traiettorie nell’arco delle ventiquattrore.
La rigida scansione temporale restituisce una città, per paradosso, sempre uguale a se stessa e l’eccessiva lentezza di alcune situazioni (l’unico limite oggettivo di questo film d’esordio) sembra sancire l’impossibilità dei personaggi di adattarsi al (lento) cambiamento in atto, simbolicamente rappresentato dal centro commerciale di nuova costruzione che fiaccherà il racket su cui lucrano questi malviventi di bassa lega. L’unica che ci riesce è Anica che, alla soglia dei quarant’anni, «vuole una nuova vita» e ha pianificato di lasciare da tempo Milutin, con cui non vede un futuro, portando via con sé il denaro della loro attività. Milutin, che ha intuito le intenzioni di lei, è troppo vecchio e disilluso per farlo, fiaccato da una vita che mal si adatta a lui, una figlia che non comunica e un perdono che mai arriverà. Ci prova Stanislav, aspirante mago, che sceglie questa giornata per confessare alla donna matura i suoi sentimenti, stupendola con i suoi ‘trucchi’ e portandola in giro per la periferia della capitale serba: attraverso il loro idillio, rivive i luoghi dell’adolescenza con gli occhi dell’amore ma non riesce a partire con lei («somigli a Milutin»), nonostante la ‘benedizione’ del boss.
È un mondo fatto di sguardi catatonici e spaesati (Milutin, la figlia Ivana), luridi chioschi e biglietti di sola andata quello che l’occhio di Arsenijević segue con delicatezza, quasi con intento realistico: la magia è invece tutta nei giochi di prestigio di Stanislav e in quella canzone che, in modo ossessivo ma senza mai ossessionare, a turno i protagonisti cantano, disperato lamento ad esorcizzare il vuoto di una città che, osservata dall’alto degli edifici, è tutt’uno con il cielo plumbeo. Indistinguibile come il presente di chi non ha mai avuto un passato e mai avrà futuro. Attraverso la fuga della bionda Anica, Arsenijević costruisce un dramma dai toni lievi che tuttavia non riserva sorprese: ma qui l’ironia va a braccetto con l’angoscia e i tocchi onirici (l’aneddoto dei bombardamenti di guerra narrato da Stanislav, il suo poetico volatilizzarsi nel finale) danno almeno colore all’algida superficie. Perché l’amore diventa un crimine quando non si ha “miedo a perderte después”.
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