Il magma del precariato
La “fuga” del titolo rievoca le atmosfere da action movie degli anni Settanta, qui non è da Alcatraz bensì dal luogo comune della perdizione professionale che è il call center. Ma qui di azione c’è né poca e lo spazio è lasciato tutto a sensazioni da cinema horror. Così la “fuga” assume un significato più completo, in uno scenario fatto di mostri dei nostri giorni, di vittime e di killer con le cuffie alle orecchie. La Fuga dal call center diventa poi un invito, un avvertimento, ma soprattutto una messa in scena grottesca, ironica, arrabbiata (ma non troppo) su tutto ciò che riguarda il lavoro di quello che una volta era chiamato centralinista.
L’idea è di Federico Rizzo, giovane regista brindisino ma milanese d’adozione, autore cult del circuito legato al Filmaker Festival, che di Milano aveva già provato a raccontare il profilo meno mondano, più nascosto, sporco e cattivo, fatto di delinquenti di periferia (Whisky di via Nikolajevka, 2001) e storie di degrado e inquietudine esistenziale, esasperazione e depravazione (I pesi di Pippo, 2002 ma anche l’acclamato Lievi crepe sul muro di cinta, 2005). Non sembra un’idea originale visto che il film è uscito dopo (ma qui entrano in gioco le dinamiche produttive… e se non hai i soldi, i film non li puoi finire) il più commerciale Tutta la vita davanti di Virzì e il più underground Parole sante di Celestini (che Feltrinelli ha distribuito direttamente in libreria), ma pur affrontando le stesse questioni, e cioè la precarietà professionale e umorale che sfocia di conseguenza in una precarietà sentimentale, il film di Rizzo (che nei call center ci ha lavorato per quasi quattro anni) possiede una carica quasi sovversiva. Tra una telefonata e un siparietto comico, una ballata e un secondo lavoro dal filippino (che ricorda come le scale siano fatte per scendere e salire), una ragazza sensibile che desidera diventare giornalista e una coppia di nonni che scappa col cuore nella valigia per consumare il loro amore, Fuga dal call center frulla grottesco e realtà, mixando la vicenda di Coldrin con quelle vere dei veri impiegati di call center intervistati dall’equipe di Rizzo (più di mille in tutta Italia).
Il film non offre nessuna soluzione (fortunatamente), elimina dalla scena i genitori (secondo Rizzo i veri responsabili di una certa forma attuale di degrado socio-culturale) e i sindacati (assenti anche in molte altre realtà lavorative), inverte i ruoli (come spesso accade nella realtà anche qui i diplomati comandano sui laureati), analizza con una certa verosimiglianza i caratteri dei suoi protagonisti e concede allo spettatore una piccola speranza e un piccolo segno di fiducia. In che cosa non si sa. Forse nella necessità impellente di prendere delle decisioni, di fare delle scelte, di vivere la vita con coraggio. Ma questa interruzione, questa sorta di “stop” sulla vicenda dei due protagonisti rappresenta il punto di arrivo di un percorso che ha il merito di esprimere, sempre, con coerenza, anche se non sempre con equilibrio, le proprie intenzioni. E visto che, pare, il film sia stato distribuito in una decina di copie in tutta Italia (ma forse erano di meno), pure le perplessità sul mondo del cinema (indipendente e non) si amplificano.
Curiosità
Si calcola che i lavoratori dei call center siano in Italia ad oggi circa 250.000, di cui 110.000 interni, 80.000 in outsourcing e 60.000 collaboratori esterni. Sul totale, circa il 10% opera proprio a Milano e provincia ed è per questo che il capoluogo lombardo rappresenta uno spaccato importante della realtà (Fonte Camera del Lavoro – Assocontact). Fuga dal call center è stato selezionato al 44.mo Karlovy Vary International Film Festival 2009, è uno dei 12 film selezionati da tutto il mondo in competizione per la prestigiosa World Indipendent Camera Award; ha vinto la 10° edizione di Sguardi di Cinema Italiano; vincitore come Miglior film al Mantova Film Festival 2009 e Miglior film al Lodi Città Film Festival 2009; ha ricevuto due nomination all’8° edizione del Ciak d’Oro.
A cura di Matteo Mazza
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