Come cade la neve a Milano
L’esperimento è davvero lodevole: un tentativo di unire fiction e documentario allo scopo di aprire uno squarcio su di una realtà che tutti credono di conoscere e su cui chiunque dice la sua, senza però conoscerla davvero nei suoi risvolti reali. Non è la prima volta che il ragista Roberto Burchielli si avvicina a qualcosa del genere: un precedente, e di gran livello, è stato il documentario Cocaina, che già si calava nel mondo dello spaccio milanese e dei poliziotti infiltrati che lo combattono, un film passato in tv e costruito con l’idea di demolire i tanti luoghi comuni che affliggono il tema. Anche in Sbirri ci sono numerose parti “vere”, in cui il protagonista Raoul Bova affianca l’Unità operativa criminalità diffusa della Mobile di Milano nelle operazioni che i poliziotti infiltrati compiono in vari punti di Milano, e in particolare l’ispettore Angelo Langè (lo stesso di Cocaina, formidabile sia come poliziotto che come ‘attore’ in video).
Quello che nell’esperimento di Sbirri non funziona è però la parte di fiction, o meglio il modo in cui è trattata: Bova interpreta un giornalista, Matteo Gatti (ispirato all’ inviato dell’Espresso Fabrizio Gatti, famoso per le inchieste sulla Sanità e sul Cpt di Lampedusa), che perde il figlio per una pasticca di ecstasy e decide di farne un’inchiesta, mentre sua moglie a Roma è in attesa di un secondo figlio. La storia è perfettamente plausibile, ma mentre le scene documentaristiche sono assolutamente reali, risprese, fotografate e montate con tecniche adeguate (microcamere nascoste, audio in presa diretta, riprese sporche alla Cloverfield) e con una certa abilità, la parte di pura fiction è troppo calcata e invasiva, tanto che prende il sopravvento sulle ottime scene live e impedisce il mix armonico dei due diversi mondi filmici: il dramma, già dato dall’accadimento della morte del figlio è sottolineato in ogni modo dalle scene di litigio esasperate tra Gatti/Bova e la moglie, dai pianti disperati di quest’ultima e da una colonna sonora che più retorica non si può.
Peccato, soprattutto perché la recitazione di Bova, forse per la prima volta, si dimostra all’altezza della situazione, anche sulle improvvisazioni. Per quanto riguarda invece il livello dell’indagine sul tema, le parti realfiction sono a volte un vero pugno nello stomaco, capaci di mettere in luce, più che i meccanismi che governano lo spaccio di droga in città, il degrado umano e sentimentale che ci sta dietro e davanti: solitudini estreme, dai Navigli a Quarto Oggiaro, quarantenni o quindicenni per diversi motivi smarriti e terribilmente inconsapevoli di ciò con cui hanno a che fare, vittime/responsabili di un business mondiale e di un invisibile marketing ad hoc, e con loro s’intravedono in lontananza substrati (familiari e sociali) desolanti nella loro impotenza. Un esperimento non riuscito, ma comunque coraggioso e valido sotto l’aspetto documentaristico.
A cura di Antiniska Pozzi
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