La danza della mediocrità
L’idea di realizzare un film sulla danza venne al produttore Anthony Mosawi in un periodo in cui stava vagliando centinaia di copioni di film horror. Tale particolare si presta alle malignità di chi è conscio delle reali intenzioni della casa di produzione: accontentare il pubblico di Step Up e Step Up 2. Invece del proclamato prodotto nuovo e fresco, Darren Grant costruisce una storia che riverbera Le ragazze del Coyote Ugly e Save the Last Dance. Di per sé non sarebbe grave, data la difficoltà di architettare una trama in grado di reggere come pretesto per le evoluzioni coreografiche della protagonista.
La scelta insostenibile è quella di ricalcare pesantemente Center Stage (2008), da cui si distingue per l’elemento burlesque che dovrebbe rendere più attuale la vicenda e per l’insistenza sul moderno senza le divagazioni classiche del precedente. In entrambi i casi la giovane viene scartata al primo provino per entrare in una scuola prestigiosa, a entrambe viene portata via la macchina da un carro attrezzi, tutte e due si trovano un lavoretto di ripiego in un locale, conoscono un ragazzo che le spinge a inseguire il proprio sogno. Si potrebbe continuare a oltranza, eliminando l’ipotesi della casualità che ha spinto due film a correre su binari paralleli a poca distanza l’uno dall’altro. Le fan di questi chick flick dovrebbero sentirsi insultate dalla scarsa inventiva che denota la sceneggiatura poco articolata e buonista in modo ridicolo (vedi la redenzione finale della finta antagonista). La storia segue il classico andamento sinusoidale: grandi aspirazioni, prima caduta, recupero, nuova crisi, vittoria finale. Il regista, nome noto nel mondo dei videoclip, presta grande cura al confezionamento degli spettacoli del Ruby’s, ma lascia il resto dell’impalcatura a navigare nella fiacca. La Winstead getta alle ortiche la sua esperienza tarantiniana in Death Proof per inseguire il consenso di un mondo teen tinto di rosa, mentre inscena l’apologia del sentimento che vince sulla perfezione tecnica. A livello coreografico si constata una certa attenzione ai dettagli che però non porta con sé una spettacolarità scoppiettante, ma si limita al compitino. Da notare il rimando a Flashdance nella sequenza in cui Lauryn danza nel locale in completo maschile, trucco anni Ottanta e capelli cotonati.
Lo screenwriter Duane Adler questa volta non ha tentato di rappresentare la riscossa dei ceti meno abbienti e non ha nemmeno raffigurato un amore al di là delle convenzioni: è la solita storia ritrita della perseveranza che conduce al successo, in cui i personaggi sono tagliati con l’accetta. Se amate la danza, gustatevi gli intermezzi sexy del club e lasciate perdere la cornice stilizzata.
A cura di Claudia Beltrame
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