La leggerezza e la pesantezza
È chiaro sin dai primi fotogrammi di Fortapàsc, in cui Giancarlo Siani ascolta Vasco Rossi a tutto volume, nella sua indimenticabile Citroen Mehari verde militare, che Marco Risi ha cercato una strada morbida, meno cinefila e più televisiva per raccontare uno degli omicidi più eclatanti della camorra, che vede coinvolto prima del giornalista, prima del simbolo, prima dell’eroe, un ragazzo. E lo fa basando il suo racconto su contrappunti e metafore, troppo scontate forse, ma utili per arrivare al cuore anche agli occhi dei meno esperti che necessitano, di tanto in tanto, di un cinema fruibile che non sminuisce il suo valore civile come in questo caso. Giancarlo (Libero De Rienzo) che si butta impaurito da uno scoglio, agganciabile metafora del vuoto in cui sta per gettarsi inconsapevolmente; le battute con gli amici e la fidanzata, la maniera sfacciata e un po’ buffa con cui ottiene informazioni dal capitano dei carabinieri (Daniele Pecci) e con cui riesce a infilarsi in situazioni più grandi di lui che, semplicemente, gli sono capitate.
Marco Risi non racconta di una penna fumante alla ricerca di scoop, di protagonismi intellettuali, di una caccia alla notizia per ottenere una promozione: Giancarlo vuole scrivere, ed è nato in una città in cui se ti interessi di cronaca prima o poi ti imbatti nel sangue, nella politica corrotta o quanto meno dubbia, solo che a lui non è stato dato neanche il tempo di scegliere (dentro o fuori, vita o morte), aveva già parlato troppo, trovandosi al centro di una faida fra clan che ne fecero il simbolo del loro potenziale di morte. La proiezione del film anticipata di una settimana a Napoli, per farlo coincidere con tutte le celebrazioni in memoria di Don Peppino Diana e delle relative manifestazioni antimafia, ha suscitato grande disappunto nel mondo della stampa locale, per via della distinzione che Ernesto Mahieux, nei panni del caporedattore del Mattino di Torre Annunziata, espone a Giancarlo tra i “giornalisti giornalisti”, ovvero quelli che indagano, scavano, rischiano, e i “giornalisti impiegati”, quelli che si limitano a riportare l’accaduto per dovere di cronaca, senza compromettersi. La teoria del film è ancora un’altra: che la promozione di Giancarlo sulla redazione di Napoli giungesse non per premiarlo, bensì per sollevarlo dalla posizione scomoda in cui si era messo. E allora, con pacatezza, senza guizzi registici particolari e con una leggerezza caratteristica più della televisione che del cinema, Marco Risi ha comunque avuto coraggio nell’esporre una propria visione dell’accaduto.
Libero De Rienzo, promessa dell’anti-divismo italiano dopo Santa Maradona (Marco Ponti, 2001), si ritrova in un parterre di eccezionalità partenopea con i vari Gallo (bravissimo Massimiliano nel ruolo di Valentino Gionta), Imparato, Carpentieri e lo stesso Mahieux tra i quali è veramente difficile spiccare, anche per un accento napoletano sul quale, è il caso di dirlo, ha forse lavorato troppo per risultare credibile. Ma la sua espressione, nel finale, quando si ritrova con una pistola puntata, di chi si aspettava inevitabilmente la morte, è meravigliosa e resterà nella memoria dello spettatore come un momento di autentica commozione.
Curiosità
La vera automobile di Siani è stata ritrovata una settimana prima delle riprese in un agriturismo siciliano, ed è quindi stata utilizzata sul set. Il produttore esecutivo del film Giancarlo De Rosa aveva già realizzato un cortometraggio in memoria del giornalista dal titolo, appunto, Mehari. L’automobile verde, così riconoscibile nella sua peculiarità, sarà per sempre un simbolo dell’ingenuità di Siani, che non aveva imparato, o forse non voleva, aver paura e nascondersi.
A cura di Daniela Scotto
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