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cultura dell'immagine e della parola

Così leggero così banale

Così leggero così banale

L’hanno definita “una divertente commedia rosa che strizza l’occhio al Diavolo veste Prada”. Ma non è una triste commedia di stagione, sufficientemente rosa da risultare indigesta, sufficientemente insignificante da non restare negli annali del cinema, sufficientemente piena dall’inizio alla fine di urletti acuti da femmine lobotomizzate al punto da infastidire non solo lo spettatore maschio medio, ma anche buona parte del pubblico femminile.

Com’è noto a tutti, il film è tratto da uno dei più grossi successi editoriali degli ultimi anni, l’omonimo I Love Shopping di Sophie Kinsella (pseudonimo della giornalista Madeline Wickham) che lo pubblicò nel 2000 dando inizio a una serie infinita di modalità di shopping che vanno da quello ‘con mia sorella’ a quello ‘a NY’ a quello ‘con il bebè’. Al centro di tutto le vicende di una shopaholic – ovvero una persona affetta da sindrome dell’acquisto compulsivo – che ovviamente ha i conti in rosso e che vuole, guarda un po’, fare la giornalista in una prestigiosa rivista di moda.

Sarebbe troppo acido commentare che, in tempi di crisi come questi, le paturnie di una scema che veste solo capi firmati sono un po’ di cattivo gusto, come lo è toccare il tema dei comportamenti scorretti di banche&co a un livello tanto epidermico: il punto non è questo. Il punto è che si tratta di una commedia banale e poco riuscita, a partire dalla sceneggiatura che è di una prevedibilità sconcertante. È vero che nelle commedie tutto finisce bene, è tra le regole del genere, ma non per forza un lieto fine è prevedibile e scontato, per non parlare del modo di arrivarci. Non c’è una gag che sia una che non risulti in qualche modo già vista e già sentita, dall’incontro coi finlandesi al litigio nell’outlet grandi firme: spiace ancora più pensando che la regia è dell’australiano P.J. Hogan, che ha firmato commedie rispettabili come Il matrimonio del mio migliore amico e Le nozze di Muriel. Si salvano la protagonista Isla Fisher, non bellissima ma dignitosa, e i due genitori ‘da risparmio’ Cusak-Goodman, forse unico vero punto di ancoraggio con la realtà. Intollerabile il personaggio di Kristin Scott Thomas, che scimmiotta la Miranda Priestly di Meryl Streep. Ne resta un film leggero (nel senso detrivo del termine) e impalpabile, come la sciarpa verde che fa le fortune dell’improbabilissima e redenta protagonista. Da evitare come la peste se amate il cinema anche solo vagamente impegnato.

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