Diario dalla Berlinale
12 febbraio
Oramai il Festival sta per volgere al termine.
Dopo la proiezione del film spagnolo La teta asustada, è il turno di Richard Loncraine (che nel 1995 vinse l’Orso d’Argento come miglior regista per Riccardo III) che presenta My one and only, ultima pellicola americana in concorso. Protagonista assoluta Renèe Zellweger che interpreta una giovane donna, madre e con un marito – maestro d’orchestra e infedele, alla disperata ricerca del compagno della vita. In un viaggio, da uno stato all’altro, tra una disavventura l’altra, sempre accompagnata dai due figli, la protagonista capirà troppo tardi chi è il vero amore della sua vita. Ma si sa quando ci sono i figli, è a loro che bisogna dedicarsi!
Altra pellicola brillante e divertente scelta per il concorso, con una Zellweger in parte e molto spiritosa, e con cast che nel complesso compie una bella prova (nel film c’è anche Kevin Bacon). Rimane però indigesta la decisione della commissione di inserire questa pellicola nel concorso principale. Sarebbe stata benissimo fuori concorso, impossibile infatti pensare che possa ambire a qualche cosa di importante nella corsa verso i premi più importanti.
Un pomeriggio “soporifero”, invece, l’ha regalato inaspettatamente Theo Angelopoulos, che con The dust of time (peraltro con un cast importante, da Willem Dafoe a Michel Piccoli, da Bruno Ganz a Irene Jacob), ha forse tentato un progetto troppo ambizioso, costruendo però un “papocchio” complesso e per niente interessante. Lui che a Berlino è stato anche in giuria (nel 1978) e in gara nel 1971, 1973, 1975, 1989 (sempre vincendo un premio) e nel 2004, qui si presenta fuori concorso, e verrebbe da dire meno male!
La storia narra di due emigranti greci, che si ritrovano dopo essere stati separati dalla Seconda Guerra Mondiale, sembra bella da raccontare. Il problema sta nei numerosi salti temporali e nelle eccessive simbologie che distraggono eccessivamente lo spettatore, facendogli perdere di vista la semplicità della storia. Da un autore serio e navigato come Angelopoulos l’attesa, bisogna ammetterlo, era maggiore, niente di grave, un piccolo “incidente” di percorso e ad un regista del suo calibro non è affatto difficile da perdonare.
A cura di Andrea Giordano
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