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Gabriele Salvatores presenta Come Dio comanda

Il primo a dirlo è stato proprio Niccolò Ammaniti. Per trarre un film dal suo romanzo ricco di 500 pagine e di una miriade di personaggi sorprendenti, tragici e comici, bisognava essere drastici e rinunciare a tante cose. Andare al cuore del romanzo, a quel rapporto tra padre e figlio che è la linfa emozionale della storia. Rinunciare all’affresco umano e sociale e concentrarci sulla dimensione ancestrale di questo rapporto: un lupo e il suo cucciolo. A differenza di Io non ho paura, che rispecchia fedelmente il romanzo da cui è tratto, qui dovevamo tagliare, ferire, a volte tradire.

Ci sono film che, come i bambini, crescono e acquistano, un po’ alla volta, una vita propria. E quando scegli gli attori, che è già metà dell’opera di costruzione di un personaggio, è bello poi vederli interpretare la musica che hai scritto e, magari, cambiarla. Così ti sembra nuova. E puoi immaginarti perfettamente i luoghi dove ambienterai il tuo film, ma poi arrivi in un posto, osservi un cielo o il greto di un fiume e la storia che vuoi raccontare fiorisce, si illumina, prende forza, anche se quel luogo è così diverso da quello che avevi in mente.

Questo film è cambiato tante volte nelle nostre teste, ma un giorno è diventato adulto, ci ha guardato negli occhi e noi abbiamo dovuto fare i conti con lui. Capannoni industriali, fabbriche, casette a schiera, centri commerciali, immense segherie, cumuli di alberi tagliati e accatastati ordinatamente… Ma intorno, tutto intorno, le montagne e i boschi impenetrabili, i fiumi che si inabissano, lasciando scoperti i sassi dei greti asciutti, come deserti, acque trattenute dalle dighe tra le gole delle montagne, una terra che trema e freme: la natura che ti accerchia, pronta a riprendersi quello che le hai strappato o che hai cercato di governare, pronta a rompere gli argini e a travolgerti in una notte di tempesta. E a liberare la parte animale che è in te.

Come in Shakespeare. C’è un “prima”, c’è una notte tempestosa e c’è un “dopo”. Ci sono tre personaggi: c’è un re, padre-padrone, c’è un figlio-principe adolescente e c’è un “fool”, un matto, un buffone. E, spesso, i personaggi di Shakespeare nel primo atto si raccontano al pubblico, nel secondo atto naufragano su isole deserte, si perdono di notte in boschi intricati o in lande desolate nel mezzo di una tempesta e, nel terzo atto, escono trasformati da quell’esperienza.

Gli adolescenti crescono e il padre, dio, re, padrone appare ai loro occhi, finalmente, solo come un uomo. Anche il padre Rino, il figlio Cristiano e il fool Quattro Formaggi, si ritrovano di notte, in un bosco, durante una tempesta… Rino, Cristiano e Quattro Formaggi sono tre personaggi scomodi, tre persone che non vorremmo incontrare, tre disgraziati che hanno imboccato la “cattiva strada”. Definitivamente soli, alla ricerca di una qualsiasi identità, magari, come nel caso di Rino, preconfezionata e costruita per giustificare la rabbia che nasce in conflitti scatenati da ragioni economiche o che nasconde quel senso di disperazione che sempre più spesso abita questi anni in cui viviamo.

Ma, come canta De André: “C’è amore un po’ per tutti e tutti quanti hanno un amore sulla cattiva strada”. Abbiamo dovuto camminare al loro fianco. Li abbiamo osservati con comprensione, a volte con affetto, anche se dicono e fanno cose spaventose. Ho dovuto condividere questo amore tra Rino e suo figlio, questo amore assoluto, totale e sbagliato, che invidio e che non so se sarei capace di provare.
Rendere “leggera” la parte tecnologica. Non far sentire agli attori la macchina da presa, le luci, la scenografia, i microfoni. Dare libertà. Non cercare altri punti di vista se non quello di un osservatore in mezzo ai personaggi, molto vicino a loro. Ad altezza d’uomo. E’ solo Dio che guarda il mondo dall’alto. Ma dov’è Dio in questa landa desolata?

Il film è girato praticamente tutto con la macchina in spalla, muovendoci con gli attori, spiandoli senza dare loro riferimenti fissi.Li abbiamo seguiti sotto la pioggia o nel fango, ci siamo infilati nelle loro risse o nei loro abbracci, senza interromperli, infradiciandoci e sporcandoci con loro. Ci siamo buttati addosso più di 150.000 litri d’acqua oltre alla pioggia, quella vera. Con temperature intorno allo zero e vento e fango. Sono cose che aiutano. É come essere in guerra: non c’è bisogno di fingere, né di “recitare”. Non c’è mai stato un elenco di inquadrature o uno story board. Il film è stato, invece, realizzato con più piani sequenza che poi sono stati interrotti e incrociati in montaggio, girando comunque dall’inizio alla fine le singole scene senza interrompere la ripresa.

Rimanere sempre agganciati all’emozione, anche nel montaggio. Se un personaggio entra in un corridoio, non occorre farglielo percorrere per intero. Il pubblico non ha bisogno di vedere l’esterno di un ospedale per capire che la scena che sta guardando si svolge in una stanza di ospedale. [img4]Ho chiesto ai musicisti, il gruppo romano Mokadelic, di non scrivere la musica “per” il film. Ho chiesto di avere dei brani ispirati al film e ai suoi personaggi e di avere questa musica prima delle riprese. Per lasciarci influenzare dalla musica e non usarla per “vestire” meglio il film. Girare con la musica. Musica concreta, che si sente che è suonata da qualcuno. Ma senza voce che canta, senza parole. Quel che resta del rock dopo il diluvio. Ci sono anche tre vere canzoni “pop” che sentiamo venire dalla radio o dalle cuffiette dell’I-Pod. E che fanno uno strano effetto messe nel contesto in cui si trovano. Come ascoltare una canzone d’amore mentre si commette un omicidio. Sarebbe bello che questo film avesse un livello narrativo che continua a bruciare, ma non si consuma mai. Come il rock.

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